Iole Vergara era
appiccicata da quasi un’ora al vetro della finestra della sua casa al secondo
piano di un condominio con vistalago lungo la statale 36. Guardava il paesaggio
affascinata e sbalordita, senza nessun pensiero particolare, immersa nel buio
del tinello mentre dalla cucina veniva l’indistinto gracchiare di una
radiolina.
Il gennaio del
1962 era cominciato all’insegna del gelo. L’intero lago di Como per qualche
giorno era sembrato appartenere a un pianeta di ghiaccio, ibernati persino i
rumori e le scarse parole che la gente si era scambiata per strada. Poi era
arrivato il phön e aveva squassato quell’irreale immobilità: aveva soffiato per
tre giorni, continuo e violento. Infine, la sera del terzo, si era acquietato.
Dalla superficie del lago era scomparsa la cresta spumosa dell’acqua sollevata
dal vento. Ne aveva preso il posto un’onda continua, lunga e morbida, che si
frangeva sulla riva con poco rumore. La monotonia inerte dell’inverno era
ritornata. Tutti, uomini e cose, potevano tirare un sospiro di sollievo.
Iole viveva sola -
suo padre era morto nel 1953, sua madre nel 1959 - aveva trentasette anni, dal
1948 lavorava presso il comune di Bellano: assunta allora come dattilografa,
svolgeva ancora quell’incarico.
S’era messa alla
finestra dopo aver cenato con un caffelatte, com’era sua abitudine d’inverno.
Dopo aver lungamente guardato il lago passò a scrutare il cielo. Cercava un
aereo notturno, di quelli che, provenienti da Milano e diretti verso la
Svizzera o la Germania, traversano il Lario in diagonale. Ne vide uno mentre
giungevano alle sue orecchie, limpide come il resto del paesaggio, le note della
dirlindana, un ritornello scandito dalle campane della prepositurale, residuo
della dominazione austriaca che l’aveva instaurato come segnale di coprifuoco.
Per Iole la
dirlindana era tuttora segnale di coprifuoco. Chiuse le persiane, spense la
radio e si ritirò a dormire.
Nessun commento:
Posta un commento