mercoledì 8 giugno 2022

Vincenzo Paglia: La forza della fragilità /5

 


Tutti vulnerabili

Tutti fragili. Ed anche tutti vulnerabili. Pierangelo Sequeri saggiamente afferma che vulnerabilità e fragilità rivelano un tratto costitutivo dell’umano-che-è-comune. Evocare la vulnerabilità del vivere significa asserire che la promessa inscritta nella vita quale garanzia e custodia del senso stesso del vivere è esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta. Il carattere autenticamente «umano» della vita, infatti, altro non è se non l’esperienza – enigmatica, ma reale – di una promessa, che interpella la coscienza a fidarsi di un senso che non solo la anticipa, ma la sostiene e la autorizza a decidersi e a rischiare la propria libertà; che la autorizza ad agire, ad amare, a soffrire, a sperare; in definitiva, a credere nella possibilità di arrivare a capo di quell’«enigmatico desiderio che fin dall’origine costituisce la segreta identità del soggetto stesso», ribellandosi, al contrario, contro il non senso e la non sostenibilità di tutto ciò che viene riconosciuto come minaccia per la consistenza e l’affidabilità della vita stessa.

Partiamo anche qui dal vocabolario. Il termine «vulnerabile» traduce l’aggettivo latino vulnerabilis, derivato dal verbo vulnerare la cui azione provoca un vulnus, una ferita. È vulnerabile chi può essere ferito in diversi modi: a livello fisico, materiale, psicologico, morale, sociale, etc. Tutti gli aspetti dell’esistenza sono segnati dalla vulnerabilità: le creature (umani, animali, vegetali) sono vulnerabili, in quanto esseri viventi sottoposti a trasformazioni, a invecchiamento e, in definitiva, destinati alla morte. Il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato: «l’uomo è fondamentalmente

vulnerabile» solo perché «la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo». Il che è come dire: ogni essere vivente «nasce» vulnerabile, dal momento che, fin dal suo primo istante di vita, egli è esposto al rischio radicale della «morte», la quale, del rischio, è il nome più proprio.

La vulnerabilità non è una scoperta recente. L’essere umano è sempre stato vulnerabile, fragile, e sempre lo sarà, «da capo a piedi, sino alle midolla delle ossa», come scrive efficacemente Lévinas. Al contempo, però, i significati attribuiti alla comune condizione di vulnerabilità sono variati con il mutare delle epoche e delle culture. Nell’attuale contesto socio-culturale la vulnerabilità sembra diventata una sorta di «cifra» sintetica dell’esistenza individuale e collettiva. Non a caso, la vulnerabilità è un concetto impiegato ormai abitualmente anche in chiave di analisi e di progettazione politico-sociale ed economica, ambiti dove viene a designare la concreta esposizione delle condizioni di vita individuali ai nuovi processi di impoverimento. La vulnerabilità, in questa accezione, presenta quindi il suo lato non solo individuale e privato, ma anche eminentemente pubblico, agendo da criterio ispirativo e regolativo di azioni sociali volte alla promozione e alla tutela del benessere e della dignità della persona. Nel 1998, la vulnerabilità è stata riconosciuta come principio bioetico «propriamente europeo» dalla Dichiarazione di Barcellona, che la presenta in questo modo: a) La finitudine e la fragilità dell’esistenza umana su cui poggia, nelle persone capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni vita morale. b) La vulnerabilità è l’oggetto di un principio morale che richiede l’esercizio della cura nei confronti delle persone vulnerabili. Le trasformazioni, a invecchiamento e, in definitiva, destinati alla morte. Il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato: «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile» solo perché «la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo». Il che è come dire: ogni essere vivente «nasce» vulnerabile, dal momento che, fin dal suo primo istante di vita, egli è esposto al rischio radicale della «morte», la quale, del rischio, è il nome più proprio.

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