lunedì 6 giugno 2022

Lorenzo Jovanotti: intervistato da Il Venerdiì di Repubblica

 


da: Il Venerdì – di Paola Zanuttini

“ Su Spotify c’è un solo ultracinquantenne in classifica. Sono io”. “Dal vivo non deludo”

Cortona (Arezzo). Nell’indifferenza di cani e gatti (trovatelli) di famiglia, sul prato di casa Cherubini, una casa bella, antica e rispettata, si aggira una silenziosa entità nera: un corpulento robot tosaerba. Ne tesse le lodi, Jovanotti, beccheggiando su una mirabile sedia a dondolo Eames arancione: «È molto pratico, davvero. Ma ogni tanto affetta le ciabatte lasciate inavvertitamente sulla sua strada». Poi si comincia a parlare di Poesie da spiaggia, l’antologia di autori vari – già bestseller – che ha curato con l’editore dei poeti Nicola Crocetti. E di concerti, sempre da spiaggia, con il Jova Beach Party 2 che inizia il 2 luglio. E di una carriera quarantennale intrapresa, come deejay, da adolescente. E di anni che passano anche per i giovanotti, a settembre sono 56. E di canzoni vecchie e nuove, soprattutto d’amore e da ballo. E di molto altro. Ma il nemico, cioè il tosaerba, è alle spalle, punta i pattini della sedia a dondolo, intenzionato ad affettare pure quelli. «Fermiamoti, va»: con un gesto quasi magnanimo Jovanotti lo blocca. «Vede come si ferma con un ordine? Un poeta scriverebbe una poesia su questo coso». Il coso s’è fermato, ma emette un sibilo straziante, anzi sinistro, tipo immanenza dei marziani nei film anni Cinquanta. «No, cos’è? Sono impreparato. Bel momento: mi chiede un codice che non ho. E se lo rovescio come le tartarughe? Siamo pieni di tartarughe, qui». Con il tosaerba pancia all’aria si riparte.

Molti anni fa De Gregori reclamava la dignità, non poetica, ma letteraria, delle canzoni. Invece, nella conversazione con Crocetti che apre l’antologia da poco pubblicata, lei sostiene l’urgenza di avvicinare alla poesia quei lettori che considerano poesia la musica leggera. È più severo di De Gregori.

«Non sono più severo, cerco di far in modo che non ci si fermi lì. Penso che in una canzone ci possa capitare un bel verso, De Gregori ne ha tanti, ma la poesia è la parola nuda senza nessun altro sostegno. È la nudità, il confine». 

                                

Lei si è appassionato alla poesia da ragazzino, a partire da quella apparentemente demenziale di Palazzeschi e i futuristi, in linea con il primo Jovanotti, apparentemente demenziale.

«Non mi convince la parola demenziale. Non mi sentivo demenziale, ero quello che ero. Prima di me c’erano gli Skiantos che si autodefinivano demenziali, credo, per conferirsi un’intelligenza che io non avevo e non voglio. La musica intelligente non mi piace, la musica popolare deve essere ingenua, diretta, semplice, ma anche misteriosa. E senza messaggio».

Ma, da un certo punto in poi, lei ha distribuito messaggi.

«Non volevo dire messaggio e il fatto stesso che non sappia come definirlo è una cosa buona. Quando scrivo una canzone non so cosa sta succedendo, ma mi ci impegno, continuo a lavorarci fino a quando raggiunge un suo equilibrio. A volte ho ragione, altre no, ma mi affido a un istinto che mi fa credere che quella cosa abbia un potere».

Ai tempi della guerra in Kosovo incise con Pelù e Ligabue Il mio nome è mai più. Oggi cosa pensa dell’Ucraina? Le armi bisogna mandarle o no?

«Non so, mi dispiace non avere una posizione, ma non lo so. Non ho abbastanza elementi».

Sembra una risposta furba. E ai tempi del Kosovo aveva elementi per decidere?

«Magari avessi una risposta furba. Allora c’era una motivazione anche personale. Con Ligabue avevamo conosciuto Gino Strada, Emergency era ancora una cosa piccola, non tanto famosa. La nostra intenzione era fare un disco per tirare su un po’ di soldi da devolvere per la costruzione di due ospedali in Afghanistan e uno in Kosovo. Vendemmo un milione di copie».        

Lei è attivissimo sul fronte dei video. In quello del suo ultimo brano, Alla salute, celebra il Sud, il Mediterraneo, il vino e la rinascita...

«...E cito anche Novecento di Bertolucci nella scena delle bandiere e il Celentano del Bisbetico domato quando pigio l’uva».

Come mai ne gira tanti?

«Mica tanti, uno ogni singolo. Magari quelli della mia generazione non ne fanno così tanti, ma i giovani sì. Per me il video è sempre stata una parte importante del racconto. Mi piace, è come fare il cinema in modo meno impegnativo».

Appunto: com’è entrare in tutti quei personaggi? È come recitare o, visto che sono canzoni sue, si immedesima di più?

«Me lo chiedo anch’io. Quando inventiamo un video ci riuniamo e domando: chi è questo qui? C’è un lavoro di impalcatura che poi però va smontata. Il video deve avere una sola idea dentro, è come una pubblicità. E mi piace che passi la sensazione che ci siamo divertiti realizzandolo. Questo mi piace anche nel cinema, come nei film di Tarantino o Fellini: gente che danza».

Qua tocca ridire appunto. Le riporto una sua dichiarazione un po’ lunghetta al TG1: «C’è un film di Pasolini dove Orson Welles dà una definizione di Fellini e io, immodestamente, a volte sogno di aderire a quella definizione: egli danza. Se si dicesse di me, mi sentirei molto onorato da questa definizione. Jovanotti: egli danza!». Perché non ha specificato che si trattava di La ricotta, l’episodio pasoliniano di Ro.Go.Pa.G.?

«Non l’ho detto? Però lo sapevo».

Non lo metto in dubbio. Pensavo fosse una strategia pop per non apparire troppo sapiente.

«Forse sì, mia moglie mi rimprovera di non citare le fonti, di voler apparire più improvvisato di quello che sono. Ma non bisogna darle troppa ragione perché ignorante lo sono sul serio. Nella Ricotta c’è tanto Pontormo: oh, lui era veramente matto».

Nei suoi video invece ci sono tante location estere e qualche metropolitana.

«A volte sono occasioni per farsi un giretto. E la metro è una location comoda, luci fisse tutto il giorno come in studio. Poi ha un aspetto urbano, e io non voglio passare per un artista bucolico. Sono cittadino, nato e cresciuto a Roma, ma nella scrittura inciampo nelle metafore naturali: sei bella come un fiore, profumata come un geranio. Oggi è un problema: nelle canzoni dei giovani la natura non c’è più. Ci sono i soldi, la droga, l’asfalto e non so adeguarmi a questo nuovo linguaggio».

Ma è necessario?

«No, però me lo domando. E a me piace essere nelle radio. Qui sotto c’è il luna park e la sera con il vento mi arrivano le canzoni: è ganzo essere nella musica del calcinculo».

Qual è la sua canzone più da calcinculo?

«Ne ho, ne ho. Ogni tanto ne esce una. I love you baby adesso lo è di sicuro».

A proposito di calci, si registrano le dure proteste preventive degli ambientalisti per il Jova Beach Party 2.

«Questa macchina gigantesca mette in luce tutto: arrivano 40-50 mila persone. È vero: ci sono diversi palchi, ma la struttura è hippy, come concetto. Il mio modello è il Burning Man, un festival in Nevada: dura una settimana e quando finisce gli organizzatori fotografano l’area e sembra che non ci sia passato niente, è come è stata trovata, anzi, meglio. Anche noi documentiamo la condizione dei luoghi, abbiamo un grande progetto ambientale e con Wwf e Intesa Sanpaolo bonificheremo 20 milioni di metri quadri di coste e fondali per un investimento di 5 milioni».

Spieghi ai benpensanti questo ecoarrembaggio delle spiagge.

«I concerti mantengono un aspetto sacramentale, misterico, ma la sensazione avventurosa di un tempo si è affievolita e, se la perdi, perdi tanto dell’esperienza che poi consiste anche nel non sapere bene che succederà, chi incontrerai. Invece ora arrivi, parcheggi, hai il posto assegnato e, appena finito il primo concerto, sui telefonini appare la scaletta dei concerti di tutta la tournée. Tutto programmato».

Ci vuole l’inatteso.

«Esatto. Con me invece non si sa esattamente quando arrivo, ogni giorno ci sono sei-sette proposte da tutto il mondo, e dj pazzeschi».

Quanti pezzi ha in scaletta?

«Ne abbiamo provati quaranta, una ventina a sera, si decide anche al momento perché con la band ci capiamo al volo. Mi ha raccontato Max Weinberg, il batterista di Bruce Springsteen, – ha casa qui a Cortona – che con il Boss è pura telepatia, basta uno sguardo e lui sa che quello è, per esempio, lo sguardo di Born in the U.S.A. In più ci metto il dj set e li faccio ballare».

Qual è la più vecchia tra le 40 canzoni che provate?

«Le vecchie tipo La mia moto non le proviamo nemmeno. E non mancano mai L’ombelico del mondo, Bella, Penso positivo, quelle degli anni Novanta, ma anche Chiaro di luna è amatissima e A te è forse la prediletta tra le romantiche».

C’è un pezzo che sente di trascurare?

«Alla fine, qualcosa perdi, ma a me piacciono le canzoni di successo e poi in una cosa come Jova Beach Party devo fare solo hit. Nella prima edizione del 2019 l’ho visto: dopo una giornata in spiaggia con la musica a palla dalle due del pomeriggio, se li mollo un attimo gli cade la palpebra. Quindi, mazzate: o pezzi tiratissimi o quelle che cantano tutti».

Come si scrive una canzone d’amore o d’innamoramento entusiasta a 55 anni?

«Per me la canzone d’amore è il massimo. È un’arte inesauribile. Due argomenti sono inesauribili: il ballo e l’amore. La musica da ballo che parla del ballo è un po’ come il cinema che parla del cinema. E funziona sempre, se ti viene bene. La canzone d’amore mi piace cantarla, mi piace farla, è come un regalo che prepari, immagini le reazioni quando verrà spacchettato».

Nella sua produzione recente affiora il senso del tempo, dell’incapacità di percepire gli eventi quando accadono, ma solo dopo. Un sentimento per niente giovanotto.

«Il linguaggio è tutto. Puoi parlare anche di cose da ottantenne, novantenne, ma è la forma che le rende adatte anche a un ragazzo di vent’anni. Ho provato spesso la sensazione che il linguaggio di un artista che ho amato non fosse più adatto alla contemporaneità».

Ovviamente nomi non ne fa.

«No. Ma può capitare a tutti, immagino che qualcuno l’abbia percepito nei miei confronti».

Età media del suo pubblico?

«Un po’ più giovane di me, ma è un fatto che non tengo in considerazione perché una canzone nasce in una condizione di grandissima intimità: non va violata dalle strategie di target».

I ragazzi di vent’anni sanno le sue canzoni del secolo scorso?

«Sì, a volte vengono coi genitori, ma vengono perché gira voce che ai miei concerti ci si diverte. Io dal vivo non ti deludo perché c’è un lavoro di entertainment accuratissimo e pieno di passione».

Jovanotti è stato una specie di fratello maggiore o di boy-scout per i ragazzi nati dagli 80 in poi. Ha passato buoni messaggi, incluso quello che ci si può divertire parecchio senza sfondarsi.  Si riconosce in questa descrizione?

«Tutto vero, ma così mi sembra di essere un po’ parrocchiale. Questo ruolo non l’ho scelto, io sono così. Mi ha sempre fatto paura l’autodistruzione, quando la vedevo negli altri scappavo. Sono stato anche fortunato, ho cominciato a lavorare di notte nei locali a 16 anni, e le guardarobiere mi tenevano d’occhio come un bimbo»

In questa immagine etica, cordiale, affettuosa c’è molto in comune con Gianni Morandi, del quale ormai è l’autore prediletto, con un nuovo brano in arrivo.

«Sì, ma con una differenza: io scrivo e lui fa l’interprete. Lo prendo in giro e gli dico che culo che hai, non devi stare sempre lì con le antenne: un’ossessione. Sempre a captare l’idea, appuntare la frase che può tornarmi utile. Lui invece è bello rilassato. Ma a me come a lui piace la popolarità».

È per questo che fa così tante canzoni?

«Le faccio perché mi vengono, mi piace. Lo so che la mia casa discografica preferirebbe ne facessi meno. Li mando nel panico: si concentrano sui singoli, gli serve una canzone ogni quattro mesi e io gliene faccio 40, non sanno come dirmi che vogliono un pezzo forte per l’estate e basta. Li capisco, quest’anno la discografia nel mondo ha fatturato il 30 per cento in più con questo new business».

Provi a spiegarlo a chi ne sa poco, il new business. Dal punto di vista dell’artista.

«Ora per un musicista con pubblico e carriera il live è la cosa più importante: una volta si faceva il tour per promuovere il disco, oggi si fa una canzone per andare in tour. Si è ribaltato il meccanismo di consumo. È tutto più frazionato, ma se uno becca un singolone che fa degli streaming micidiali i soldi arrivano. Parliamo di grandissimi numeri, tipo 300 milioni di streaming su You-Tube».

E la riproducibilità tarocca dell’opera d’arte?

«Non c’è più perché tutto il web riconosce i file. Mettiamo che Instagram mi accetta un pezzo per un minuto, se metto un minuto e un secondo, o lo rallento, me lo toglie perché finché sono in quel minuto l’algoritmo becca la canzone e una minima parte di compenso mi viene riconosciuta: lo 0,00000001 di un centesimo. Ora il web non è più un luogo selvaggio e le case discografiche ci guadagnano un sacco di soldi, perché sono grandissimi  numeri. In sintesi: siamo passati da pagare un oggetto e non il suo uso a pagare solo l’uso e questo ha cambiato tutto, soprattutto le classifiche: c’è la musica di chi ascolta un pezzo cento volte al giorno, cioè i ragazzini, gli unici che hanno tempo per sentire un pezzo compulsivamente, quindi è in atto la “bambinizzazione” e tutta la discografia si butta a capofitto. Se guarda i primi 50 posti di Spotify non conosce un nome, tranne il mio che sono al numero 2. Un prodigio, praticamente, mi hanno chiamato per dirmi: sei l’unico over fifty fra i primi cento!».

Ma gli artisti come se la passano in questa rivoluzione?

«In genere mica tanto bene. I discografici investivano sulle loro carriere, gli davano gli anticipi, oggi non più. E non gli costano niente anche perché li cambiano di continuo. I veri valori della discografia sono i produttori: a Hollywood un tempo vedevi strombazzato il nuovo disco di Michael Jackson, oggi vedi l’annuncio del nuovo disco di Max Martin. E chi cavolo è? Un produttore svedese».

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