martedì 12 ottobre 2021

Transizione ecologica è cercare un equilibrio fra sviluppo e ambiente

 


da: https://www.lavoce.info/ - di Donato Berardi, Filippo Galimberti e Michele Tettamanzi

Il cambiamento climatico e l’impatto antropico sull’ambiente costringono a ripensare modelli di consumo e di produzione. Se il primo passo è misurare la relazione tra i fenomeni, occorre poi dare significato al concetto di transizione ecologica.

La relazione tra sviluppo e tutela dell’ambiente

Nel corso del tempo, il rapporto fra esseri umani e natura ha vissuto innumerevoli mutamenti, un continuo oscillare tra armonia e conflitto, senso di appartenenza e contrapposizione, scelta di assecondarne i ritmi e invece spinta a modificarne l’aspetto, fino a piegare l’ambiente circostante alle esigenze dell’uomo.

Il cambiamento climatico e l’impatto antropico sull’ambiente ci costringono a compiere un passo ulteriore e ripensare ai modelli di consumo e a quelli di produzione – le due facce della stessa medaglia della nostra società – in modo tale che siano orientati alla sostenibilità e alla tutela dell’ambiente. I primi riguardano soprattutto “le persone”: quanta parte del loro reddito dedicare alla spesa, quali bisogni soddisfare in via prioritaria. Quelli di produzione, invece, chiamano in causa il “mondo industriale” a cui si chiede di coniugare la crescita con la salvaguardia dell’ambiente, investendo in favore di processi produttivi più efficienti e

circolari, così da tutelare sia il benessere dei cittadini (e il loro reddito) che il rispetto ambientale. In questo senso, quindi, i rifiuti (e la loro gestione) diventano il risultato più tangibile e ingombrante dei nostri modelli di consumo e produzione.

Sviluppo economico, miglioramento della qualità della vita e tutela dell’ambiente: oggi si guarda alla transizione ecologica quale soluzione che sappia far convivere in maniera armonica tre elementi fino a ora poco equilibrati. Una sfida che, per essere vinta, necessita di strumenti in grado di misurarne la relazione. Tra di essi vi sono: la curva di Kuznets e il decoupling (disaccoppiamento). Se il primo strumento indaga i modelli di consumo, il secondo si occupa dei modelli di produzione. Ma osserviamoli un po’ più da vicino.

La curva di Kuznets

La curva di Kuznets identifica il rapporto che intercorre fra il reddito pro capite e l’inquinamento prodotto da ciascun cittadino quale relazione tra reddito e diseguaglianza sociale: infatti, un’elevata produzione di rifiuti avviene, necessariamente, in seguito a un utilizzo intensivo, ovvero poco efficiente, delle risorse, a discapito di chi alle risorse non ha accesso o comunque delle generazioni future, chiamate a rimediare.

L’ipotesi di questa teoria è che al crescere del reddito pro capite l’impatto ambientale cresca fino a segnare un picco, per poi decrescere superato un certo livello del reddito, in modo da disegnare una curva a “U rovesciata”: l’impatto ambientale può essere misurato, ad esempio, come quantità di rifiuti prodotti oppure come quantità di CO2 emessa.

Utilizzando dati riferiti al reddito degli italiani, ai loro consumi e alla quantità di rifiuti prodotti a livello comunale, emergono interessanti indicazioni. Facciamo due conti.

Innanzitutto, al crescere del reddito pro capite aumentano i consumi: 1.000 euro di reddito addizionale per ciascuna famiglia si trasformano in circa 740 euro di consumo. La relazione è decrescente nel reddito a indicare che i redditi più bassi consumano proporzionalmente una quota maggiore del proprio reddito; specularmente i ceti più abbienti dispongono di più risparmio.

In seconda battuta, è possibile osservare che al crescere dei consumi crescono anche i rifiuti prodotti: più acquisti si traducono in una produzione maggiore di rifiuti in ambito domestico, a causa ad esempio degli imballaggi e di una sostituzione più frequente degli oggetti di uso quotidiano. In media 1.000 euro di consumo pro capite si trasformano in circa 22 kg di rifiuto urbano. E ancora. Se al crescere del reddito cresce anche il consumo e al crescere del consumo cresce la produzione di rifiuto, allora, per proprietà transitiva, al crescere del reddito aumenta anche la produzione di rifiuto pro capite. In media è quindi possibile asserire che per ogni 1.000 euro di reddito in più, si osservano circa 16 kg di rifiuto urbano prodotti.

Ricapitolando: se è vero che all’aumentare del reddito si osserva anche l’aumento della produzione di rifiuto, è vero anche che una volta arrivata al suo “picco” reddituale la crescita registra un’inversione di tendenza che la porta a essere decrescente. La relazione, robusta e significativa, permette di identificare il punto di massimo della “U” rovesciata in corrispondenza di un reddito pro capite di circa 23 mila euro, cui si associano 514 kg di rifiuto urbano pro capite prodotti.

Sono circa 7.350 i comuni italiani che si trovano nella fase “crescente” della curva: in questi territori, al crescere del reddito di 1.000 euro il rifiuto prodotto aumenta di circa 18 kg. Viceversa, nei circa 370 comuni che si trovano nel tratto discendente della curva, ad ogni 1.000 euro di reddito pro capite aggiuntivo si associa una riduzione della produzione di rifiuto di 2 kg. Non si tratta di un eclatante virtuosismo, ma evidenzia un chiaro distacco in termini di comportamento.

La relazione si osserva a livello di produzione di rifiuto urbano complessiva, come somma del rifiuto differenziato e indifferenziato. Ciò significa che non siamo in presenza di un mero effetto di composizione (tra “differenziato” e “residuo”), ma di una reale riduzione del rifiuto prodotto, coerente con la gerarchia dei rifiuti, che vede proprio nella prevenzione e nella riduzione della produzione il comportamento virtuoso da ricercare.

Il tema è a questo punto duplice: se la fotografia che ci viene restituita dai dati racconta che oltre certi livelli di reddito la produzione di rifiuto si riduce, allora è evidente che ogni politica di sviluppo dovrebbe essere in grado di coniugare la sostenibilità con il progresso dei redditi, portandoli oltre quella soglia e prevenendone lo scivolamento, a cui si associa anche un peggioramento degli standard ambientali.

Il decoupling o disaccoppiamento

Il disaccoppiamento (o decoupling) tra impatti ambientali e crescita economica ha invece un’accezione più ampia, che può essere tradotta in un modello di produzione nel quale il benessere e la qualità della vita delle persone possono crescere senza generare ulteriore pressione sull’ambiente.

Nel nostro caso, si parla di disaccoppiamento quando alla crescita economica, in termini di maggiore reddito e maggiori consumi, non corrisponde un aumento proporzionale della produzione di rifiuti da parte delle attività economiche: l’intensità della produzione di rifiuto per unità di Pil è il termometro della sostenibilità del modello di produzione e di consumo.

Il concetto di disaccoppiamento diventa particolarmente rilevante nella prospettiva della transizione ecologica. Si realizza infatti nell’osservare se e in quale misura pratiche industriali più avanzate possano contribuire a creare ricchezza e insieme impatti ambientali minori. Vista da questa prospettiva, la transizione ecologica si compie promuovendo tecniche produttive via via più efficienti, in grado di mantenere inalterata la produzione e la creazione di reddito, e coniugandole con un uso più parsimonioso delle risorse, attento ai loro ritmi di rigenerazione. Lo sganciamento della produzione di rifiuti dalla crescita del Pil dovrebbe essere il primo segnale dell’avvio di questo percorso.

Il valore aggiunto – la somma dei redditi distribuiti – è una variabile del reddito prodotto nel paese. Ciò che naturalmente saremmo portati a pensare è che a una maggiore intensità dell’attività economica (e quindi, a un maggiore flusso di reddito creato) corrisponda anche una maggiore quantità di rifiuto prodotto. Per misurare la sostenibilità del modello di produzione possiamo fare riferimento ai rifiuti prodotti dalle attività economiche, agricole, industriali e commerciali (i cosiddetti rifiuti speciali).

Il disaccoppiamento permetterebbe di preservare i livelli di benessere raggiunti riducendo il nostro impatto ambientale, minimizzando il trade-off tra economia e ambiente. Raggiungere questo obiettivo consentirebbe di mettere nel cassetto gli scenari di decrescita come panacea a ogni male e abbracciare con maggiore convinzione un paradigma di sviluppo vocato alla tutela dell’ambiente.

I fattori in gioco sono molteplici: il tempo, lo sviluppo tecnologico, la produzione di nuovi materiali, sino a nuovi modelli di gestione e tariffazione del rifiuto in grado di spingere le imprese a comportamenti virtuosi.

La relazione che sussiste tra valore aggiunto e rifiuti speciali è purtroppo ancora di proporzionalità diretta: all’aumentare del valore aggiunto, aumentano anche i rifiuti speciali prodotti. Non siamo finora riusciti a realizzare il disaccoppiamento e la produzione di rifiuti rimane saldamente “ancorata” all’andamento del Pil.

Negli ultimi decenni il tema del disaccoppiamento rispetto alla CO2 è stato molto studiato in ambito accademico. L’evidenza in questi studi (qui e qui) non è documentata in modo conclusivo. Pur tuttavia, più di recente, in Europa le politiche di efficientamento energetico e l’introduzione di strumenti economici di cap&trade (Ets) sembrano aver giocato un ruolo importante nel sostenere l’avvio di un percorso di disaccoppiamento tra produzione e inquinamento.

Per quanto riguarda invece la relazione fra valore aggiunto ed emissioni di CO2, una semplice analisi grafica riferita all’Italia ci permette di osservare un lento ma progressivo processo di “disaccoppiamento” fra emissioni e attività economica, che va oltre gli effetti della congiuntura economica degli ultimi tre lustri. Gli strumenti di mercato, come appunto il prezzo dei diritti di emissione (CO2), dovrebbero essere rinforzati, per sostenere le politiche di neutralità climatica al 2050. Tuttavia, anche nel nostro paese i recenti interventi di sterilizzazione dei segnali di prezzo sulle bollette elettriche di cittadini e imprese non sembrano andare nella direzione auspicata.

Puntare sulla transizione ecologica

I 209 miliardi in arrivo del Next Generation EU hanno smosso il quadro politico e soprattutto economico, principalmente laddove i due elementi sono legati.

È forse troppo semplicistico affidare solo alla tecnica il ruolo di ridurre l’impronta ecologica, rischiando così di deresponsabilizzare la collettività, intesa come cittadini, imprese e istituzioni. Anche la migliore tecnologia non è neutrale: la necessità di cambiare nel più breve tempo possibile è sopravvenuta pure perché la tecnica non ha offerto risposte, frenata dai mancati investimenti nella ricerca e nello sviluppo e dal business as usual. Non si è saputo dare una guida sostenibile, un fine giusto ed equo, anche per le generazioni future. Se stiamo vivendo un’emergenza ambientale non è solo perché non abbiamo finora avuto strumenti adeguati, ma perché non li abbiamo usati o li abbiamo usati male, senza responsabilità. Il cambiamento di paradigma richiede soprattutto una diversa idea di futuro e non solo una maggiore attenzione alle tecniche: occorre accettare che il cambiamento parta dalla testa e non solo dalle braccia.

È venuto il tempo di ricercare innanzitutto la sostenibilità come motore per la crescita economica. Una nuova società fondata sul riconoscere l’equilibrio tra produzione, consumo e ambiente come la dimensione in grado di generare reddito e benessere per tutti, e di cui la tecnica possa essere al servizio. Da un modello lineare, ancora oggi mainstream, a un modello circolare, fatto di riprogettazione, osmosi produttiva, sinergie, reti, buone pratiche, etica, competenze, fantasia.

È questo il significato più intimo della transizione ecologica, per il quale le istituzioni sono chiamate a indicare la via e a coordinare l’impegno collettivo di cittadini e imprese.

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