venerdì 1 ottobre 2021

Aretha Franklin, una diva immensa malgrado un padre-padrone

 


da: Il Venerdì di Repubblica - di Marco Consoli

Nel biopic Respect, Forest Whitaker intepreta il padre della cantante, predicatore, attività e tiranno: «l'amava moltissiamo, ma voleva controllarlo»

Ci sono molti modi di interpretare la vita di Aretha Franklin raccontata in Respect, la cinebiografia da ieri nelle sale, in cui una bambina che con la sua voce stupiva amici di famiglia come Ella Fitzgerald e Duke Ellington si è trasformata nella Regina del Soul, incarnata sullo schermo da Jennifer Hudson, premio Oscar nel 2007 per Dreamgirls. Certo però è che la sua è soprattutto una storia di emancipazione dal padre-predicatore-padrone Clarence LeVaughn Franklin, ministro della Chiesa battista, eccellente oratore, cantante di talento e incantatore di fedeli, che intuite le doti della figlia la formò sulla via della musica gospel, aiutò a lanciare la sua carriera ma tentò anche di controllare quali brani doveva incidere e quali uomini doveva frequentare, scatenandone perciò la ribellione.

«Era un individuo piuttosto complicato, figlio di mezzadri estremamente poveri, che a Natale non potevano regalargli neanche le caramelle», spiega Forest Whitaker, l’attore che gli presta il volto, già premio Oscar per L’ultimo re di Scozia anch’egli nel 2007, e interprete di indimenticabili film come Bird, Ghost Dog e The Butler. «Fin da ragazzino Clarence si era rivelato un prodigioso oratore e grazie alla tecnica chiamata hooping, in cui la narrazione era

accompagnata da canzoni, era il predicatore più ascoltato d’America. Tuttavia nei confronti di Aretha era diventato un tiranno, che tentava di controllarne i comportamenti come qualcuno che vuole impedire a un uccellino di spiccare il volo. Per me è stato uno dei ruoli più difficili in carriera».

Come mai?

«Perché qui si trattava di incarnare un uomo pubblicamente molto ammirato che in privato rivelava moltissimi difetti. Era particolarmente complesso mostrare che dietro i comportamenti abusivi nei confronti di Aretha, dietro la rabbia feroce coltivava un amore profondo per lei».

Una storia di soprusi figlia anche dei rapporti di genere del tempo...

«All’epoca certamente esisteva un problema di profonde disuguaglianze tra uomini e donne, e anche se le cose in Occidente sono migliorate, queste esistono ancora oggi quando si parla di parità di salario o avanzamenti di carriera. Ma in altri Paesi è ancora peggio che ai tempi di Aretha: con la Whitaker Peace & Development Initiative lavoro come specialista per la risoluzione di conflitti e spesso viaggio in posti in cui le donne sono ancora vendute come bestiame. C’è moltissimo lavoro da fare».

Come mai con la sua organizzazione si dedica soprattutto ai giovani?

«Perché il nostro futuro è nelle loro mani. Ci sono 484 milioni di ragazzi e bambini che vivono in aree di conflitto nel mondo. Se si riesce a lavorare in quelle comunità insegnando loro a diventare mediatori, in modo tale da aiutare chi vuole ricostruire la propria comunità e il proprio business, si può veramente cambiare il mondo. Noi abbiamo lavorato con oltre 1,2 milioni di persone dal Messico al Sudan e finanziato centinaia di attività, aiutandole a fronteggiare problemi di ogni genere».

Anche Clarence Franklin era un attivista e lottò fianco a fianco con Martin Luther King. Come giudica la situazione dei diritti dei neri dopo le manifestazioni di Black Lives Matter che hanno scosso l’America?

«Franklin lottava per i neri perché aveva sofferto per la discriminazione riservata ai suoi genitori che lavoravano nei campi. Di sicuro è stata fatta tanta strada dall’epoca della schiavitù: ci sono neri manager di grandi società e abbiamo avuto un Presidente nero. Ma basta pensare a quanto successo a George Floyd per capire come ci sia ancora un vasto problema di abusi e razzismo nei nostri confronti da risolvere al più presto».

Fin dalla tenerissima età Aretha mostrò di avere doti straordinarie. E lei da giovanissimo quale talento aveva?

«Di certo non ne avevo uno altrettanto spiccato, ma anche a me piaceva cantare con gli amici in una band del quartiere a Carson, dove sono cresciuto. Allora non immaginavo che sarei diventato un attore, né sognavo di diventare un musicista professionista. Al college ho iniziato a studiare musica operistica, ma siccome i  miei amici non erano molto interessati al genere, ho cercato di capire se ci fosse un’altra forma di espressione più diretta per comunicare col pubblico. Il mio insegnante di dizione mi ha suggerito di fare un provino per uno spettacolo teatrale e ho avuto la parte da protagonista. Così ho iniziato a recitare».

Qual è il suo rapporto con la musica di Aretha Franklin?

«Penso sia stata un’artista unica: forse è perché aveva iniziato con il gospel, ma quando la sentivi cantare potevi percepire nella sua voce una vibrazione e un’energia capaci di rivelare una sorta di connessione col divino. Sono stato fortunato di avere lavorato insieme a lei, quando le ho chiesto di incidere un brano per il mio film da regista Donne. Waiting to Exhale. Ogni volta che lo riguardo, quando partono le note di Hurt so bad, mi commuovo».

A luglio ha compiuto 60 anni. Quali considera i momenti fondamentali della sua carriera da attore?

«Sono stato fortunato a essere scelto a 25 anni per un piccolo ruolo in Il colore dei soldi al fianco di Paul Newman, perché quel film mi ha fatto capire che potevo fare l’attore e mi ha dato la notorietà necessaria a far crescere la mia carriera. È stato proprio grazie a quell’esperienza che Clint Eastwood mi ha scelto per interpretare Charlie Parker in Bird. Direi che questa è forse  la parte più importante della mia carriera, perché è stata la prima da protagonista ed è quella che mi ha fatto conoscere al pubblico internazionale».

Com’è stato lavorare con Eastwood?

«È un regista che ti mette a tuo agio. Dovevo interpretare la scena in cui Charlie Parker muore e avevo deciso di privarmi del sonno per alcuni giorni prima di girarla, perché volevo arrivare sul set con la minor quantità possibile di energia, come se stessi per morire. Così sono arrivato sul set, mi sono seduto su un divano per girare e prima del ciak mi sono addormentato. Mi ha svegliato un tizio che non conoscevo e mi ha chiesto come stavo. La troupe ha pensato che stessi male e ha chiamato un medico a sincerarsi delle mie condizioni. Quando ho visto Clint gli ho chiesto scusa, e lui mi ha detto: non ti preoccupare, rifacciamo la scena esattamente così».

Altri ruoli che ricorda con piacere?

«Sicuramente Ghost Dog è stato importante perché mi ha insegnato come recitare con il corpo e come usare il silenzio, rendendomi un attore migliore. E poi L’ultimo re di Scozia, quando ho incarnato il dittatore Idi Amin, perché devo confessare che è il personaggio in cui sono entrato per la prima volta con tutto me stesso. In un certo senso in quel film ho imparato ad arrendermi al personaggio fino ad aderirvi completamente. Anche se mi sono davvero sentito sicuro di me stesso solo quando ho interpretato il maggiordomo di The Butler».

Quale considera il suo tratto distintivo?

«Qualcuno ha scritto che è il mio sguardo particolare (l’occhio sinistro leggermente socchiuso a causa di una ptosi palpebrale, ndr.) e non so se è davvero così, ma penso di essere stato fortunato: avrebbe potuto ingabbiarmi nell’interpretazione esclusiva di ruoli da malvagio e invece ho avuto l’opportunità di spaziare moltissimo. Ogni parte è stata accompagnata da sfide e sorprese, come il ruolo di Franklin, che mi ha costretto a tornare a cantare  come quando ero ragazzo».

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