domenica 3 ottobre 2021

Giancarlo Giorgetti: Il guru delle poltrone che dà del tu a Draghi e non fa mai comizi

 


da: Il Fatto Quotidiano – di Pino Corrias

Adesso lo chiamano “Giancarlo Fini” per dire che è il traditore di Salvini e della Lega, destinato al rogo. Ma lui di nome e di cognome fa Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario delle segrete cose, addetto alle nomenclature e alle poltrone, con una predilezione per le banche, al momento ministro dello Sviluppo economico, l’unico leghista che dà del tu a Mario Draghi, ricambiato. L’unico che fa ombra al Capitano, specialmente ora che il Capitano passa da un colpo di sole all’altro. Il più qualificato a parlare con i governatori del Nord che fanno girare il Pil e il Green pass, senza dare retta ai perdigiorno che a forza di social si bevono le filosofiche scemenze del Grande Riassetto Mondialista. Il più svelto a capire che il futuro del mostruoso debito italiano si scrive a Bruxelles, non alle pendici del Monviso, meno che mai dell’Aspromonte.

Sebbene anche lui, negli anni dell’apprendistato, giocava con l’ampolla secessionista del Dio Po. Giorgetti saltò fuori direttamente dal fumo del sigaro di Bossi una trentina d’anni fa, quando l’altro celebre fondatore della Lega, l’architetto Leoni si aggiustò il papillon e disse al capo: “C’è questo ragazzone di Varese che sa di numeri e di economia. È sveglio. È persino laureato alla Bocconi”. E il Bossi di allora, che all’università di Medicina di Pavia ci andava per finta (“studio il cuore alle alte temperature, diventerò un elettro-dottore” diceva alla prima moglie che poverina gli credeva) rimase impressionato. Accese il sigaro, sbuffò in meditazione, disse: “Candidiamolo”. E così fu.

Era l'anno 1996. Le acque del lago di Varese erano già avvelenate dagli scarichi delle fabbriche metallurgiche e dai cessi degli alacri abitanti che si erano dimenticati di costruire le fogne, e Giorgio Bocca aveva scritto da gran tempo quel formidabile inizio del suo reportage che diceva: “Mentre Piacenza galleggia nella nebbia, Varese si specchia nella sua merda”.

Quell’acqua violentata lambisce i natali di Giorgetti Giancarlo, sponde di Cazzago Brabbia, anno 1966, paesello di 800 anime, babbo pescatore, madre operaia tessile, educazione cattolica che è diventata carattere, visto che una volta l’anno il pio Giancarlo, il “pretino” (ancora Bossi dixit) sale a piedi sul Sacro Monte di Maria, lungo le 14 cappelle devozionali, sempre recitando il rosario che mai si sognerebbe di esibire in pubblico È di indole mansueta. Riflessivo. Siccome da sbarbato faceva il portiere – quello che sta da solo tra i pali, para quando può e quando incassa il gol abbassa la testa e resta muto – nella Lega, ha fatto grosso modo lo stesso. Almeno fino a un certo giorno che era più o meno l’altro ieri, quando è andato fino al centrocampo a dire basta così al “Salvini che fa il Salvini”. La Lega sta con Draghi e non con Orbán. Sta con Washington e non con Putin. Non candida dei cartonati a Milano e Roma per perdere la faccia e forse la poltrona. La Lega non citofona. Non si ubriaca al Papeete. Non frequenta l’Hotel Metropol di Mosca, dove servono aperitivi & microfoni. Non difende quel filiforme della storia patria, il Durigon di Latina, che cancella l’omaggio a Falcone e Borsellino per inchinarsi a un certo Mussolini minore. Non manda tutti giorni alla malora i migranti e meno che mai distribuisce i bacioni, che sono stati l’alfa e l’omega della Bestia, finita bestialmente. La Lega, versione Giorgetti, sta al governo, possibilmente in cravatta, a coltivare i fiori e le spine del potere. Per una decina di anni la sua vanga è stata la presidenza della Commissione Bilancio della Camera, anni 2001-2006 e poi 2008-2013, dove ha coltivato relazioni grazie al suo mentore, nonché cugino di lago, il ricco, ricchissimo, Massimo Ponzellini, che amava guidare le aziende di Stato e le sue 6 Ferrari, prima correndo dietro a Prodi, poi Berlusconi, poi Bossi, lungo le paraboliche della coerenza. Al quale agevolò molte nomine, compresa quella di presidente della Banca popolare di Milano, anno 2009, da cui uscì in manette, tre anni dopo, ma senza stropicciarsi

troppo il gessato, visto che la condanna per corruzione aveva la prescrizione incorporata e Giorgio Napolitano, dal Quirinale, l’aveva appena battezzato Cavaliere del lavoro.

Specializzato in nomine, Giorgetti partecipa alle spartizioni dei colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, oggi Leonardo. È lui che tratta per i vertici di A2A, Expo, Malpensa, Fiera di Milano, seduto sempre ai tavoli che a occhio nudo non si vedono, accanto a Gianni Letta, Luigi Bisignani, Denis Verdini, la crema, e naturalmente a Giulio Tremonti, durante i mitici tempi delle cartolarizzazioni, quando faceva ancora coppia con Marco Milanese.

Berlusconi si fida di lui. Quando c’è da tagliare la torta, parlano la stessa lingua, per questo aveva il posto fisso, accanto a Bossi, alle cene del lunedì di Arcore. E aveva il posto fisso anche quando si trattava di varare le manovre economiche dei suoi governi, compresa l’ultima, anno 2011, l’Italia a un passo dalla bancarotta che costrinse Berlusconi alle dimissioni, inseguito dai suoi elettori e dal fantasma di Ruby Rubacuori.

Ai tempi di Bancopoli, sta con Antonio Fazio, il governatore della Banca d’Italia che faceva l’elemosina ai mendicanti e anche a quel Gianpiero Fiorani, leggendario ragioniere di Lodi, che provò a scalare Antonveneta e che un giorno del 2006 lasciò alla segreteria di Giorgetti un biglietto di ringraziamento in cima a un pacco di banconote: 100 mila euro prontamente restituite (ma non denunciate).

Laconico com’è, non usa né Facebook, né Twitter. Non fa comizi. “Ho tre amici in tutto e nessuno nella politica”. Tifa Southampton, in subordine Juve. Parla talmente riservato che un giorno Bossi gli ha chiesto: “Ma sei massone?” E lui ridendo: “Magari! ”. Che è il suo modo di dire e non dire. Come piace ai leghè, gli uomini di lago che “sono il mio dna”. Al punto che nel lago ci fa il bagno, nonostante i divieti. A breve volerà in America, dove incontrerà gli uomini dell’amministrazione Biden. Visiterà Washington. E magari anche le acque del fiume Potomac che scorre accanto alla Casa Bianca e qualche volta sfocia a Palazzo Chigi.

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