domenica 13 maggio 2018

Marco Travaglio: “Chi riabilita chi”


da: Il Fatto Quotidiano

Se fossimo dei berlusconiani dell’antiberlusconismo, oggi parleremmo di toghe azzurre e di (in)giustizia a orologeria. Invece per fortuna siamo immuni dal virus, dunque prendiamo la decisione del Tribunale di Sorveglianza per quello che è: un fatto tecnico che prima o poi doveva arrivare e che, per i suoi effetti pratici, si limita ad anticipare di qualche mese ciò che sarebbe comunque accaduto l’anno prossimo, allo scadere dei sei anni di incandidabilità previsti dalla legge Severino.
Lo sapevamo tutti che, nell’estate del 2019, B. sarebbe tornato candidabile ed eleggibile per legge. E che, se la legislatura non si fosse interrotta prematuramente, avrebbe preso uno a caso dei suoi eletti nell’uninominale e l’avrebbe “convinto” a dimettersi per candidarsi al suo posto alle elezioni suppletive in quel collegio. Cosa che pare si appresti a fare ora.
Dopodiché, all’atto pratico, non cambierà nulla, come dopo la sua espulsione dal Senato: B. in Parlamento non ha quasi mai messo piede neppure quand’era deputato e continuerà a non mettercelo neanche se sarà rieletto, perché la vita parlamentare lo annoia e l’idea di valere 1 su 945 lo fa impazzire. Quanto al presunto effetto acchiappavoti della sua riacquisita eleggibilità, fa semplicemente ridere: se il 4 marzo FI, con tanto di “Berlusconi Presidente” nel logo sulla scheda, ha toccato il minimo storico di consensi (continuando a perderne negli ultimi due mesi), non è perché B. non fosse eleggibile, ma perché l’87% dei votanti l’ha visto come un pericolo pubblico o almeno come un fallito, anche un po’ bollito.
Il che naturalmente non significa che non conti più nulla, anzi: lo dimostrano la fine miserabile fatta da chiunque lo desse per morto o si credesse più furbo di lui; e il timore reverenziale che ancora gli riserva l’intero sistema.
Ma quel potere non è legato alla sua presenza o meno in Parlamento o nelle liste: gli deriva dai soldi, dalla potenza di fuoco del suo impero mediatico, dalla capacità di ricatto su tutti quelli che ha corrotto o beneficato e o che sono stati suoi complici, dalle relazioni occulte (si fa per dire) con i peggiori ambienti criminali della storia d’Italia: dalla P2 a Tangentopoli a Cosa Nostra.
C’è, è vero, la suggestione della parola “riabilitazione”, che fa pensare a chissà quale revisione di giudizio sui suoi crimini. Ma la riabilitazione giudiziaria non c’entra nulla col merito delle sentenze definitive: ne annulla solo gli effetti, senza sfiorare i verdetti né tantomeno cancellare i delitti e le connesse responsabilità etico-politiche (le uniche che dovrebbero interessare politici e cittadini).
Si limita a smacchiare la fedina penale dei pregiudicati che, dopo un po’ di anni, abbiano tenuto una “buona condotta”. Silvio Berlusconi “delinquente naturale” era e “delinquente naturale” resta. Se il Canaro della Magliana o il Mostro di Firenze vengono riabilitati dal giudice di sorveglianza, rimangono il Canaro della Magliana e il Mostro di Firenze: hanno solo espiato la pena, evitato di delinquere ancora e tenuto una buona condotta. Punto.
Ora, che, dopo la condanna definitiva per la mega-frode fiscale dei diritti Mediaset e i 10 mesi di servizi sociali, B. non sia tornato a delinquere, è piuttosto improbabile. Dalle indagini del Ruby-ter risulta che continuò a pagare decine di testimoni chiamati a deporre nei suoi processi (oltre a essere indagato a Firenze per le stragi del 1993 e imputato a Bari per aver pagato Gianpi Tarantini per mentire ai pm: fatti, questi, antecedenti alla condanna del 2013), ma per affermare che quella è corruzione bisogna attendere la sentenza definitiva.
Invece i giudici sembrano aver trascurato le continue sparate contro i giudici della Cassazione che l’hanno condannato, paragonati a un “plotone di esecuzione” ispirati da “finalità politiche” con una condotta più pessima che buona. Vedremo se, sul punto, la Procura generale si opporrà al provvedimento. Ma fin d’ora possiamo cestinare come carta straccia tutti i commenti politici dei suoi amici: non solo i compagni di partito e di coalizione che esultano per non si sa bene quale vittoria, ma anche i compari del Pd che sono sempre stati culo e camicia, pappa e ciccia con lui.
Chi aspetta le sentenze, o addirittura i provvedimenti tecnici tipo riabilitazione, per farsi un’idea di un soggetto del genere o per modificarla, è senza speranze. Nessuna riabilitazione potrà mai cancellare i fatti inoppugnabili che fanno di B., nell’ordine: un frodatore fiscale incallito, il protagonista di un patto di mutuo soccorso stipulato nel 1974 con i vertici di Cosa Nostra, un finanziatore per 18 anni della mafia (anche di quella corleonese di Riina, Bagarella e Provenzano, fino al 1992, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio), il compare di un condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa, il probabile terminale della trattativa Stato-mafia, un corruttore di senatori e testimoni, un pagatore occulto di Craxi, un piduista per giunta falso testimone sulla sua iscrizione alla loggia di Licio Gelli, il capo di un gruppo che corrompeva giudici, finanzieri e politici, comprava sentenze, falsificava bilanci, accumulava montagne di fondi neri all’estero, scippava a un concorrente il primo gruppo editoriale a suon di mazzette, entrato in politica nel 1994 per scampare alla galera e alla bancarotta con 60 leggi ad personam o ad aziendam.
Che Salvini, neoalleato dei 5Stelle, definisca la sua ricandidabilità “una buona notizia per lui e per la democrazia” la dice lunga sull’ambiguità del nascente “governo del cambiamento” e sulla democrazia salviniana. Se un (altro) delinquente entra in Parlamento, è una pessima notizia per la democrazia. Almeno per quella che abbiamo in mente noi.

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