da: https://www.glistatigenerali.com
La rielezione di Sergio Mattarella lascia al Quirinale un inquilino degno e capace. Ma assesta un duro colpo alla credibilità della classe politica, dei parlamentari e del presidente stesso. Con l’obiettivo, non proprio lungimirante, di rinviare di qualche mese tutti i problemi.
Per capire di cosa parliamo, però, è necessario riavvolgere il nastro, vincere il fastidio e la nausea, e ritornare a mettere in fila un po’ di elementi della storia che hanno portato a questo finale. Un finale che oggi tutti celebrano come una vittoria, e che però quasi nessuno può intestarsi. Non può farlo di fatto alcun leader di partito, perché nessuno ha detto esplicitamente il nome di Mattarella almeno fino a quando la slavina ha travolto tutte le ipotesi – maldestre o dignitose che fossero – in campo. Possono intestarsela alcuni singoli parlamentari, questi sì: ma non i tanti che nel voto silenzioso e segreto, dentro al catafalco, sono cresciuti di voto in voto. Ma quelli – i pochi, perlopiù membri del Partito Democratico che da giorni se non settimane o mesi – dicevano che questa era la soluzione giusta, e anche la più probabile. Vengono in mente i nomi di Matteo Orfini, Stefano Ceccanti, Fausto Raciti, Francesco Verducci, Francesco Boccia, a titolo di esempio. Ce ne sono anche altri, ma non sono poi tanti di più, quelli che hanno dato da subito voce alla impotenza della politica e della classe dirigente nel trovare una soluzione che fosse non aderente allo status quo ma, probabilmente, più aderente allo spirito della Costituzione per come anche Sergio Mattarella l’ha interpretata e “diffusa” nei mesi scorsi.
Ma appunto, riavvolgiamo brevemente questo nastro, e ritorniamo alle radici vicine di questo esito. In parlamento da un anno – un anno esatto, per coincidenza – c’è una maggioranza di governo atipica. Estremamente atipica. È composta da un partito di estrema destra, la Lega di Salvini, in cerca di una nuova e faticosa quadra; da un partito nato populista radicale e oggi diventato pancia della stabilità e del conformismo di ogni maggioranza, il M5S che formalmente è guidato da Conte ma in parlamento ha l’unica guida in Luigi Di Maio; dalla Dc tascabile del Partito Democratico; da quel che resta di un partito che fu grande per decenni come Forza Italia; dal vascello pirata capitanato da Matteo Renzi. Fuori da quella maggioranza c’è solo Giorgia Meloni, i suoi Fratelli d’Italia formalmente uniti in coalizione con gli altri partiti di centrodestra. Questo sarebbe stato un problema già prima, quando si sceglievano ogni giorno i destini di un paese massacrato dalla coda lunghissima del Covid, e invece sembra diventata un’anomalia solo dopo, cioè adesso, quando c’era da eleggere il Presidente. Stranezze della politica.
Ma torniamo al parlamento, un’assemblea elettiva piena di fedelissimi di leader che tali erano a inizio legislatura, e magari leader non sono più, o non più nello stesso partito. Un’assemblea nella quale almeno una metà degli abitanti, oggi, sanno con buona probabilità che dovranno cambiare casa di sicuro alla fine della legislatura, perchè o non saranno ricandidati, o non saranno rieletti. Un’assemblea elettiva, ancora e per concludere la fotografia, composta da parlamentari che dal marzo del 2018 a oggi hanno cambiato collocamento e alleati in maniera continua, combinando in maniera estrema ingredienti che – avevano giurato e spergiurato – mai avrebbero dovuto essere mischiati. Così leghisti e grillini avevano dato vita al Conte I, il Conte II veniva varato subito dopo la firma dei decreti Salvini e nasceva grazie all’iniziativa di chi aveva giurato che l’alleanza coi 5 Stelle l’avrebbero fatta #senzadilui, e infine era nato il governone di oggi. Più in particolare, a diventare figure chiave – quasi il simbolo – della stabilità e dell’equilibrio istituzionale è diventato Luigi Di Maio, che per Mattarella aveva chiesto a suo tempo addirittura l’incriminazione. Questo per sottolineare non le incoerenze dei singoli, ma la capacità trasformativa di questa legislatura.
È dunque in questo quadro, in questo contesto, che va letta la partita che ha portato Sergio Mattarella a svuotare gli scatoloni. Scatoloni – va detto – che il presidente aveva iniziato a preparare da mesi, da un lato, ma non aveva voluto sigillare con la ceralacca dall’altro. Perché lo dico? Perché è vero che aveva detto e fatto dire a molti giornalisti vicini e accreditati che non era disponibile per ragioni istituzionali e costituzionali, e non per motivi strettamente personali. Ed altrettanto è vero che aveva infiorato le sue uscite pubbliche di citazioni che spiegavano con chiarezza la sua interpretazione – molto negativa – dell’ipotesi del bis. Ma anche vero è che non aveva e non ha mai voluto in maniera chiara spezzare le speranze e le aspirazioni di chi invece quel bis lo voleva. Perché e chiaro che – prima, ma ancora di più dopo – avrebbe potuto con una nota ufficiale di tre righe dire la sua assoluta indisponibilità. Magari nell’imminenza del primo voto, la scorsa settimana. La partita sarebbe stata chiusa, prima ancora di iniziare. Perché non l’ha fatto? Sono tra quelli che credono che il suo diniego fosse assolutamente sincero, che davvero credesse all’inopportunità istituzionale di consolidare in abitudine l’eccezione inaugurata da Giorgio Napolitano. Lo credevo e ancora lo credo per il suo predecessore, che probabilmente mai avrebbe immaginato di inaugurare una tradizione. Resta che Mattarella non ha voluto stroncare davvero sul nascere l’ipotesi della sua rielezione, e la conferma è arrivata poi in questi giorni, quando dopo tanti “no” sussurrati il suo “sì” è arrivato forte e chiaro. E questo – va detto chiaramente – per la più alta carica dello stato resta un limite. Perché resterà in molti l’idea che abbia cambiato idea e si sia fatto convincere, nonostante le altissime ragioni per cui aveva detto – prima – di non essere disponibile. Non è un problema da poco, per l’istituzione più importante e per uno dei presidente più amati della storia della Repubblica.
A spingerlo, più dei leader politici, sono stati i singoli parlamentari. Questo si dice, ormai a reti unificate, e con buone ragioni. Pensate solo che stamane, alla prima votazione della mattina, il suo nome sarebbe passato e avrebbe raggiunto il quorum se non ci fossero state le assenza strategiche di circa duecento parlamentari. A convicerli a disertare, e a non votare Mattarella ancora prima di averlo formalmente consultato, era stata la certezza che comunque sarebbe stata eletto in giornata. Questo insomma era il quadro, e queste le premesse politiche. Ma questa spinta dai parlamentari è arrivata, nella sostanza, per ragioni di bassa bottega, per paura “di andare a casa” che oggi viene rinominata unitariamente come “bisogno di stabilità”. Non basterà a cancellare le cicatrici che questa storia lascerà. Come non basterà la certezza che l’altezza del profilo istituzionale e personale di Mattarella – mai in discussione – sarà comunque una garanzia per tutti. Perchè a questo risultato – inutile negarlo – si arriva per una molteplice inadeguatezza della classe dirigente politica di oggi. La prima riguarda l’incapacità di trovare candidati e candidate all’altezza a una successione così impegnativa. Non si può pensare che “una persona degnissima” ma del tutto sconosciuta o nuova a certe cariche sia candidabile così, all’improssivo. La seconda riguarda la capacità rappresentativa dei parlamentari, rispetto ai loro elettori. Perché un parlamento pieno di soggetti che non rispondono a nessuno, sui territori elettivi, finisce con l’essere forte preda di trasformismi e di obiettivi di corto respiro, come quello di tirare a campare. La terza riguarda la pochezza delle leadership dei partiti, che alla fine hanno preferito minimizzare le perdite accettando la conservazione dello status quo come fosse un grande successo, invece di riconoscerte una dignitosa sconfitta.
Potremmo
continuare a lunga, con i problemi del futuro. Invece forse aiuta di più uno
sguardo sul passato. Sette anni fa, in
occasione della prima volta di Sergio Mattarella, quando l’accordo sembrava
fatto ma il voto ancora non era stato espresso, un not osenatore di provenienza
Pci-Pds-Ds, Ugo Sposetti, mi disse, proprio sulle soglie del parlamento: “Vedi,
il film va visto tutto, fino ai titoli di coda inclusi”. Allora il navigato
politico voleva dirmi di non dare per scontata l’elezione di Mattarella. Lo
diceva da scettico, probabilmente da critico. Mi è tornato in mente oggi, che
“il film” iniziato sette anni fa ha avuto un sequel tutto diverso. Non solo
allora, ma anche oggi. La sconfitta che Sposetti preconizzava allora è
diventata una vittoria. Ma forse, da qualche parte, quella “profezia” assume un
altro sapore. Il finale del film mostra una democrazia bloccata, una classe
dirigente politica incapace di decidere, che esulta e tira plateali sospiri di
sollievo per aver rinviato il problema forzando ulteriormente su istituzioni e
costituzioni, del tutto indifferenza agli umori del paese. Non è un gran finale,
perchè fare politica significa però immaginare che il finale non è mai scritto,
e che le alternative esistono per definizione. Rimuovere questo dato di realtà
aiuterà forse a vivacchiare per qualche mese, non a proiettare nel futuro un
paese in cui i giovani politici – ormai sulla soglia dei Cinquanta – continuano
a nascondersi all’ombra degli ultimi grandi vecchi, e a vantarsi come se ne
fossero i padri e non, invece, i nipotini indolenti.
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