da: La Stampa
ll ritardo culturale del nostro Paese sul fronte delle energie rinnovabili è rivelato dall’esultanza con cui fu accolto il cambio di etichetta da «ministero dell’Ambiente» a «ministero della Transizione ecologica». Quasi che tale formula sia l’abracadabra che dischiude da solo le porte del paradiso ecologico che tutti desiderano. Perfino all’arcigno Garante dei Cinque Stelle quelle due parolette parvero garanzia sufficiente, pur in assenza di contenuti e impegni ben definiti, per deliberare il pieno appoggio del suo partito al governo Draghi. Ma ora che è arrivato il momento della verità è il caso di chiedersi di quale transizione ecologica stiamo parlando.
Un’analisi dei dati e dei rischi che sia mirata al vantaggio del Paese e al bene delle generazioni future deve fondarsi sulla sostanza dei problemi, e non su pregiudiziali schieramenti pro o contro questo o quel governo. Le scelte di oggi avranno conseguenze di lunghissimo periodo; perciò non possiamo ignorare che il cuore del problema non è l’opzione astratta per le energie rinnovabili, ma come esercitare in concreto le scelte di fondo. Gli impianti eolici e fotovoltaici, infatti, possono avere effetti positivi, ma anche un impatto assai negativo su valori di grande rilevanza ecosistemica, a cominciare dal paesaggio e dall’agricoltura di qualità. Se l’intensificazione di pannelli solari e torri eoliche dovesse comportare la devastazione di preziosi paesaggi storici, quali saranno le nostre priorità?
Il bivio è simile a quello, non meno drammatico, fra il diritto al lavoro e il diritto alla salute. Come si è visto a Taranto, se lavorare in una fabbrica comporta gravi danni alla salute, la soluzione non è scegliere fra due valori che sono (entrambi) costituzionalmente protetti, ma assicurare il rispetto di entrambi. Mantenere i posti di lavoro e proteggere al massimo la salute dei lavoratori. Nel Pnrr la transizione ecologica comporta un grande investimento complessivo (quasi 70 miliardi di euro), con l’obiettivo di raggiungere il 30% di energia rinnovabile entro il 2030, portando questa percentuale al 50% entro il 2050.
Di fronte a obiettivi così ambiziosi, le gravi preoccupazioni espresse da Italia Nostra meritano la massima attenzione da parte del governo. Negli ultimi due decenni, già si è moltiplicata oltre ogni misura ragionevole la presenza di turbine eoliche alte fino a 250 metri, distribuite sul territorio con scarsa considerazione per le caratteristiche paesistiche; per non dire delle grandi estensioni di terreno sottratte all’agricoltura per cospargerle di pannelli solari. Ma l’Italia non può e non deve gareggiare per numero dei nuovi impianti con altri Paesi di ben diverse dimensioni: per fare un solo esempio, mentre la nostra popolazione e quella della Francia sono assai simili (poco più di 60 milioni), e hanno dunque gli stessi bisogni di energia, la Francia ha una superficie quasi doppia (550.000 kmq contro i 300.000 dell’Italia); e di conseguenza la nostra densità di popolazione (206 abitanti per kmq) è quasi doppia di quella francese (117 abitanti per kmq). L’Italia ha pochi spazi pianeggianti, che dovrebbero essere dedicati all’agricoltura onde assicurare non solo il nostro sostentamento ma la produzione di cibo sano e di qualità; ma questi spazi, dalla pianura padana alla Campania, sono stati devastati da un consumo di suolo che è il più alto d’Europa, superiore anche a quello della Germania che ha più abitanti. E tuttavia il disegno di legge inteso a limitare il consumo di suolo, dopo nove anni di traversie parlamentari, è stato da poco affossato in Senato. Intanto sono rallentati manutenzione e incremento dei bacini idroelettrici, che producono il 15% del fabbisogno di energia elettrica, per giunta non intermittente, e dunque più affidabile di eolico o fotovoltaico. Mettendo in sicurezza le dighe e ripulendo i fondali dai detriti si potrebbe non solo aver cura dell’ambiente ma anche accrescere la produzione, riducendo la corsa a nuove fonti di energia. Non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al pericolo di danneggiare in modo irreversibile un Paese, il nostro, che fu un tempo il «giardino d’Europa» e di assecondare la messa in opera di torri eoliche e pannelli solari facendo l’interesse delle imprese (in gran prevalenza non italiane) che li producono ma non di chi vive in Italia e ha diritto a un contesto paesaggistico rispondente alle caratteristiche del Paese.
I bei paesaggi sono Luoghi che curano (questo il titolo di un bel libro di Paolo Inghileri, Ed. Cortina), mentre i paesaggi deturpati danneggiano la salute dell’anima e della società. A questi temi l’Italia di oggi sembra insensibile: come si può altrimenti spiegare il duro contrasto fra il Regolamento europeo 2021/241, secondo cui le misure Pnrr devono proteggere gli ecosistemi senza produrre alcun danno ambientale, e il Dl «Semplificazioni», dove tale principio è sostanzialmente ignorato? E che cosa saprà fare l’Italia, dove la tutela del paesaggio è fra i principi fondamentali dello Stato (art. 9 Cost.) di fronte a un’Europa che propaganda il Green New Deal senza menzionare il paesaggio e il patrimonio storico-artistico e archeologico? Che cosa faremo per regolare la scelta di luoghi idonei ad accogliere i nuovi impianti, o per lavorare d’anticipo coprendo sin dal principio il costo dello smantellamento di tali impianti, e non lasciarlo in eredità ai nostri figli e nipoti?
Franosità,
fragilità idrogeologica, alta sismicità, densità di popolazione da un lato;
ricchezza di paesaggi, ecosistemi, produzione agricola e monumenti preziosi
dall’altro: sapremo tener conto di questi fattori e del loro combinarsi? O li
cancelleremo dalla memoria storica in nome di una transizione ecologica ciecamente
concentrata solo su se stessa?
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