da: Lettera 43
«Sarà guerra per le risorse»
Il sociologo Bauman sugli effetti della crisi.
di Barbara Ciolli
Negli
occhi ha il guizzo di un ragazzino sveglio e intelligente e l'acume
disincantato di chi ha attraversato molte generazioni, conosce bene il lato
cinico dell'uomo, ma non ha perso neanche la fede nel suo lato più nobile.
'Umano' si dice dell'uomo quando prova dolore e istintiva partecipazione per le miserie altrui, tende la mano all'altro nella difficoltà e spera di arrivare insieme a un traguardo comune. E in fondo Zygmunt Bauman, uomo solido che ha teorizzato la società liquida, è stato accolto senza riserve nelle campagne dello Yorkshire inglese dopo essere sfuggito, da ebreo polacco, prima all'occupazione nazista, poi all'antisemitismo strisciante del regime comunista.
'Umano' si dice dell'uomo quando prova dolore e istintiva partecipazione per le miserie altrui, tende la mano all'altro nella difficoltà e spera di arrivare insieme a un traguardo comune. E in fondo Zygmunt Bauman, uomo solido che ha teorizzato la società liquida, è stato accolto senza riserve nelle campagne dello Yorkshire inglese dopo essere sfuggito, da ebreo polacco, prima all'occupazione nazista, poi all'antisemitismo strisciante del regime comunista.
Dall'inizio
degli Anni 70 non si è mai mosso dalla sua cattedra all'università di Leeds. «A
wonderful city», dice con entusiasmo mai spento, mentre si siede di scatto
sulla poltrona in pelle del suo studio, accendendosi con gusto la pipa.
FEDE NEL
SOCIALISMO LIBERALE. A 87 anni, il sociologo che ha descritto le
metamorfosi del capitalismo e l'esplodere della società dei consumi gira il
mondo senza sosta per lezioni e conferenze. Ma le sue radici sono lì, nella
culla del socialismo liberale, nel quale non ha mai smesso di credere.
La sua
casa in collina - molto british - è grande e accogliente, piena di libri
ma senza grandi comfort. Gli oggetti sembrano essere stati piazzati sui mobili
per restarci a lungo.
Per gli
ospiti, Bauman prepara con cura un caffè e un'abbondante colazione. «Si faccia
un giro in questa splendida cittadina, prima di ripartire. Goda delle sue arti,
respiri la sua cultura. Qua è tanto meglio che a Londra», suggerisce, prima di
parlare dei travagli del mondo.
LE DUE
VIE PER USCIRE DALLA CRISI. Sulla crisi attuale, l'uomo che ha vissuto molto
vede nero. Ma, da sociologo, è molto lineare e lascia la porta aperta. «Ci sono
due possibilità», spiega a Lettera43.it. «O, come è già successo nella
storia, l'umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa
alla crescita» oppure, se l'homo consumens non accetterà, con
sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la
guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse».
In
entrambi i casi, il processo sarà «doloroso», soprattutto nei Paesi
occidentali, dove «lo stato sociale è in via di demolizione». Per Bauman, «non
è più una questione di destra o di sinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.
Le insidie non mancano, a partire dal capitalismo al tramonto, che «riserva sempre sorprese imprevedibili», e dall'impotenza della politica che, se non riacquisterà il potere di agire, non potrà traghettare i Paesi verso modelli più sostenibili.
Le insidie non mancano, a partire dal capitalismo al tramonto, che «riserva sempre sorprese imprevedibili», e dall'impotenza della politica che, se non riacquisterà il potere di agire, non potrà traghettare i Paesi verso modelli più sostenibili.
DOMANDA.
Eppure i politici propongono la via dell'austerity, per tagliare
sprechi e sperperi della società dei consumi.
RISPOSTA. È una
soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte
persone disoccupate.
D. Come
fa allora a risolvere la crisi?
R.
Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi.
Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.
D. Per
ora, cosa è arrivato a concludere?
R. Primo,
che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di
sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del
credito era inevitabile.
D. Colpa
del ceto medio vorace, che, con il boom economico, voleva accaparrarsi tutti i
nuovi comfort?
R. Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. Le persone sono state indottrinate, è stato fatto loro il lavaggio del cervello.
R. Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. Le persone sono state indottrinate, è stato fatto loro il lavaggio del cervello.
D. Un
sistema sofisticato.
R. Miracoli
del capitalismo. Il punto, però, è che adesso ci troviamo in questa situazione.
In tutto il mondo, non solo nell'Occidente più sviluppato, ma anche nelle Tigri
asiatiche, in Brasile...
D.
L'Europa non è messa peggio dei Paesi in via di sviluppo?
R. Questo
sì. In Europa e negli Usa la contrazione è maggiore. E in Gran Bretagna, per
esempio, si è abusato delle carte di credito più che in Italia, ma il trend è
lo stesso.
D. C'è
chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.
R. Di
questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali
nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.
D. In
cosa ha sbagliato la società liquida?
R. Intanto
nel non considerare che c'è un limite naturale al credito. Che quello che si
ottiene senza sacrificio oggi, si pagherà necessariamente domani.
D. E poi?
R. Poi c'è
un secondo aspetto che abbiamo ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo
già consumando il 50% in più di quanto la Terra possa offrire.
D. Ma,
con la crisi inarrestabile, i consumi si stanno contraendo.
R.
Globalmente, la fame di risorse continua a crescere. Tra 50 anni avremo bisogno
di cinque pianeti, per soddisfare i nostri bisogni. È una certezza.
D. Ed è
una certezza che la Terra sarà distrutta.
R.
Credevamo che la sola via per essere felici in queste e nelle prossime vite
fosse consumare il più possibile. Invece questo sistema sta distruggendo il
pianeta e le nostre esistenze individuali.
D. Come
se ne esce?
R. Per
uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in
discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere,
rinunciando a molti comfort.
D. Sarà
dura.
R. Chi,
come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare
da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza
frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.
D. Sta
dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?
R. Non in
peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza
televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile
disabituarsi ai comfort. Sarà - se accadrà - un processo lungo e doloroso.
La
sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse
D. Perché
dubita che accadrà, se ritiene possibile l'esistenza di società alternative?
R. Essere
possibile non è essere scontato. Qualcuno dovrà necessariamente guidare questo
percorso. La grande domanda è capire quale forza sarà in grado di farlo.
D. La
politica non è in grado?
R. I
governi sono chiaramente incapaci di farlo. Vengono eletti per quattro, cinque
anni. Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscirci, dicono alla gente
quello che vuole sentirsi dire nel momento.
D. Eppure
la crisi dura da cinque anni.
R. E
infatti la politica è impotente, non sa che pesci prendere. Ormai la gente, per
frustrazione, vota chi non era al governo al momento del collasso. Non è più
una questione di destra o di sinistra.
D. In
Italia, Mario Monti non è stato neanche eletto.
R. Ma la
gente lo avrebbe votato egualmente, per reazione contro il premier precedente.
In Spagna, il socialista José Luis Zapatero cadde travolto dalla crisi, ma
sarebbe accaduto lo stesso al conservatore Mariano Rajoy. E se in Francia, due
anni fa, ci fosse stato monsieur François Hollande, ora Nicolas
Sarkozy sarebbe in carica.
D. Non è
un quadro troppo sconfortante?
R. Ormai la
gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini
hanno perso fiducia nell'élite al comando. E, se vuole la mia personale
opinione, penso che abbiano ragione.
D.
Perché?
R. Da un
po' ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per
governare.
D. In che
senso?
R. Al
momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la
capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali
cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano
nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no,
è nazionale. O, al limite, internazionale.
D. Può
fare un esempio concreto?
R. Prima i
politici decidevano cosa fare e, contemporaneamente, avevano il potere di agire
nel campo delle finanze e dell'economia nazionali. Oggi possono pensare a cosa
fare, ma agire è ormai un potere fluttuante nella no man's land globale.
Le aree locali non hanno più influenza.
D. Stati
e gruppi di Stati sono quindi succubi dei cosiddetti 'poteri forti'.
R. La
situazione è terribile. E fino a che non cesserà questo scollamento, nessuna
soluzione a lungo termine potrà essere trovata. Questa è la mia profonda
convinzione.
D. Prima
parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società
alternativo.
R. Non si
tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare - o
imparare da zero - a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni
di vicinato, cooperare.
D. Non le
sembra un progetto utopistico?
R.
Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che tu, io, tutti noi insieme, dovremo
discutere seriamente per cambiare i nostri orizzonti, smettendo di spendere nei
negozi. Ma, in passato, per la maggior parte della storia dell'umanità, gli
uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori
ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell'uomo-artigiano.
D. E se
non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?
R. Allora - è la seconda possibilità - la vita sarà ancora più dura. La
natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno
guerre sanguinose.
D. Guerre
per le risorse?
R. Sì, come
ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le
guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse
guerre per la redistribuzione.
D.
Sopravvivenza e distruzione, entrambi gli scenari sono possibili.
R. Come
sociologo non sono in grado di dire quale prevarrà. Personalmente, non credo
tanto nella prima possibilità.
La fine
dello stato sociale e la smitizzazione del '68
D. Oltre
ai consumi che le masse non possono più permettersi, la crisi globale sta
distruggendo lo stato sociale.
R. Tutti i
governi lo stanno smantellando, socialdemocratici e di centrodestra. Come per i
premier eletti, la scomparsa dello stato sociale non è né di destra, né di
sinistra. Del resto, non lo fu neanche sua creazione.
D. Da
cosa nacque lo stato sociale?
R. L'idea
che la comunità venisse incontro nei momenti di difficoltà si concretizzò, in
modo particolare, dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale.
D. Tutti
ne uscirono a pezzi.
R. Al di là
della destra e della sinistra, si arrivò alla conclusione di aver tutti bisogno
dell'aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche i capi. L'uno dipendeva
mutualmente dall'altro.
D. Perché
mai il padrone, the boss, dipendeva dagli
operai?
R. Allora
il capitalismo aveva ancora bisogno di lavoratori locali. Era interesse del boss
tenere la sua potenziale forza lavoro in buone condizioni. Buona salute, buona
istruzione, buona forma. Magari anche una buona auto per andare al lavoro!
D. Ma a
pagare il welfare era lo Stato.
R. A
maggior ragione c'era bisogno del welfare. Con questo meccanismo, i capitalisti
abbattevano anche il prezzo per avere forza-lavoro attraente. La comunità
pagava loro buona parte dei costi.
D. Invece
oggi?
R. Oggi le
aziende non hanno più bisogno di lavoratori locali. Con la globalizzazione
fanno arrivare manovalanza dall'Asia e dall'Africa. Oppure traslocano in
Bangladesh.
D.
L'industria è davvero finita in Europa?
R.
Togliamoci dalla testa che ritorni. I disoccupati europei non sono più neanche
potenziali lavoratori. La classe operaia - e più in generale la classe
lavoratrice dipendente - sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900
accadde con i contadini.
D. Cosa
resta nel continente?
R. Lo
vediamo dai danni fatti. Da decenni i profitti non si fanno più dall'incrocio
tra capitale e lavoro. Ma dall'incrocio tra prodotti e clienti. Occorreva
tenere buoni i consumatori.
D. Come
il welfare, anche le conquiste del 1968 sono polverizzate dalla crisi.
R. Da un
punto di vista sociologico, rivalutato a posteriori, il movimento del '68
coincise con l'entrata dei cittadini nella società dei consumi. Fu questa la
sua conseguenza più duratura.
D. Non le
considera conquiste?
R. Il '68
fu una rivoluzione culturale, non c'è dubbio. E di certo, gli studenti che
scendevano in strada volevano tutto, tranne che sdoganare la società dei
consumi.
D. Ma?
R. Ma,
volenti o nolenti, la conseguenza fu quella. Dall'austerità del dopoguerra
emerse una nuova generazione che voleva godersi la vita, semplicemente.
D. È
un paradosso.
R. Eppure è
così. I sessantottini erano consumatori di mercato, pronti a cogliere le occasioni
che si presentavano. Volevano divertirsi. Vestirsi alla moda. Crearsi identità
diverse dalle precedenti. Essere liberi di provare piaceri temporanei. Alla
lunga, anche gli iPhone sono una conseguenza del '68.
D. Anche
l'amore liquido è una conseguenza del '68.
R. Gli
appuntamenti su Internet, gli incontri di una notte («one night stand»)...
Tutto è una conseguenza. È facile: ti diverti, poi premi il bottone delete,
cancella. E tutto sparisce.
D.
Nell'attimo, però, la soddisfazione è maggiore. Si conoscono più partner, si
accumulano esperienze di vita.
R. Sì, ma
il punto è che, nel tempo, ciò che dà soddisfazione è innanzitutto collezionare
esperienze su esperienze. Una volta ottenuto l'oggetto del desiderio lo si
getta via, per ottenerne subito un altro.
D. Il mio
iPhone, però, non è l'ultimo modello. E l'ho preso pure usato.
R. Stia
tranquilla che, presto, anche lei lo getterà nel sacco della spazzatura, per
averne uno nuovo.
L'etica
commercializzata e la vitalità del capitalismo
D. Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20 anni fa, lei guardava all'etica post-moderna come a un salto di qualità. La società liquida non era tutta da buttare.
R. Avevo,
ahimè, sottovalutato l'ingegnosità del marketing capitalista. Pensavo che, dopo
secoli di società solida, dove la moralità si identificava con il conformismo,
fosse finita l'etica dell'obbedienza ai codici prestabili e iniziasse l'epoca
dell'agire morale individuale. Un agire autentico e libero, dettato dalla
responsabilità delle proprie scelte.
D. Perché
non è andata così?
R. Nell'era
dei consumi, anche l'etica e la moralità sono state commercializzate. In
un'epoca dove sei rintracciabile ovunque e, pena il licenziamento, devi fare
gli straordinari per il tuo capo, ti senti molto in colpa, per non essere un
partner presente, un buon padre o una buona madre.
D. E
allora?
R. Allora
arrivano in soccorso i negozi. Con i regali cerchi di compensare i bisogni
della tua famiglia. Come un prozac, sedano il tuo inappagato impulso morale.
D. Ma non
risolvono i problemi.
R. Affatto.
Scambiando i regali come tranquillanti, non sentirai mai che le relazioni umane
vanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cercherai più la guarigione e
diventerai patologico.
D. Parla
della situazione attuale?
R.
Riducendo gli scrupoli morali ed evitando di affrontare i problemi, siamo
arrivati dove siamo arrivati.
D. Eppure
lei ha vissuto tempi peggiori: la guerra, i regimi, la discriminazione. È
davvero così doloroso vivere oggi? E domani sarà davvero così difficile?
R. È
sbagliato pensare alla società liquida, come a una società leggera e
superficiale. Non ha senso comparare i livelli di felicità di epoche e
generazioni diverse.
D.
Perché?
R. Perché
si confrontano astrazioni diverse. Per sentire la mancanza di qualcosa, devi
prima provarne l'esperienza. Si può dire che ogni tempo abbia le proprie gioie
e le proprie afflizioni. Ma non che oggi un giovane rimasto senza Facebook
soffra meno che a vivere nel Medioevo.
D. Qual
è lo scoglio più duro della crisi attuale?
R. La
deprivazione. Quattro anni fa non sarebbe stato neanche immaginabile perdere la
capacità di comprare una casa, di chiedere prestiti...
D. ...
Persino non potersi permettere un'auto.
R. Eppure
sarà così. Tornare allo stile di vita «happy & lucky» (felice e
fortunato) del '68, o anche solo di un anno fa, sarà impossibile.
D. Se per
l'etica era stato fiducioso, adesso lo è meno.
R. Se è per
questo, come tanti ero stato anche troppo ottimista sul capitalismo.
D. Con il
crollo dei consumi morirà il capitalismo?
R. Chissà.
In passato molti hanno profetizzato la sua fine. Invece, visto che non siamo
profeti, quando stava per morire il capitalismo è sempre risorto.
D. Come
ha fatto?
R. Trovando
strade inedite e sorprendenti, per fare profitti.
D. Anche
il capitalismo è liquido?
R. Quanto
meno flessibile e dotato di grande inventiva. È riuscito a trasformare la gente
che aveva abitudine a risparmiare, in gente che spende denaro senza riserve. Un
miracolo.
D. Ora
anche il business del credito però sembra arrivato al capolinea.
R. Il
capitalismo è in seria difficoltà e sembra assai improbabile che possa
sopravvivere. L'ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai il Prodotto interno
lordo si regge su un'economia illusoria e intangibile, disconnessa dai problemi
genuini della gente, che fa profitti solo spostando moneta.
D. Business virtuale.
R. Business
per pochi. I soldi si muovono dalle tasche di un grande azionista verso le
tasche di un altro grande azionista. Capace però di fare miracoli.
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