mercoledì 21 dicembre 2022

Giulio Santagata con Luigi Scarola: L’ira del riformista / 3

 


 

Un paese senza ricchi

Una sera del 2019 l’allora vicepremier Luigi Di Maio comunicò dal balcone di palazzo Chigi che era stata abolita la povertà. Una affermazione un tantino sopra le righe visti i dati che esporrò più avanti. Aspetto invece un analogo annuncio del ministro delle Finanze che, alla luce delle ultime dichiarazioni dei redditi, proclami che in Italia è stata abolita la ricchezza.

È infatti una esigua schiera (lo 0,31%) di contribuenti a dichiarare un reddito imponibile superiore ai 200.000 euro. Per il fisco siamo un paese con una distribuzione del reddito fortemente equilibrata, con una fascia centrale di poveri-ricchi con redditi attorno ai 25.000 euro.

Io dovrei avvertire una leggera vertigine nell’apprendere che faccio parte del 5% degli italiani più ricchi; invece, mi basta scendere a prendere la mia Fiat Tipo nel parcheggio del mio condominio di media periferia perché la vertigine ceda il posto all’incazzatura. Le auto con un prezzo di listino superiore ai 60.000 euro sono molte di più del 5% e come è possibile che io sia l’unico ricco di via Giuseppe Notari?

In effetti il fisco ci dà un quadro completamente falso della distribuzione del reddito dato che l’Istat ci dice che il 41% della ricchezza nazionale è in mano al 5% dei cittadini. Evidentemente non c’è una corrispondenza tra ricchezza e imposte versate. Se a questo aggiungiamo che a sostenere il carico fiscale maggiore sono i lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi allora mi diventa chiaro perché non è possibile agire sulla leva fiscale per contrastare le disuguaglianze. Per il fisco i ricchi sono il ceto medio e ogni proposta di riforma fiscale finisce per saldare gli interessi dei poveri-ricchi con quelli dei ricchi-poveri lasciando franchi i ricchi veri che a parole si vorrebbe “colpire”.

Si dice, non senza una qualche ragione, che il problema sia l’evasione fiscale che sottrae allo stato circa 100 miliardi ogni anno. Ma se l’universo dei contribuenti è quello che ci racconta l’Agenzia delle entrate allora possiamo ipotizzare che l’evasione sia un fenomeno di massa e, per amor di iperbole, che proprio l’evasione sia la modalità più efficace per contenere i divari raggruppando al centro della piramide la maggioranza dei contribuenti.

A meno che non riteniamo che a evadere siano solo i più facoltosi che smantellano la progressività del nostro sistema fiscale proprio sottraendo all’imposizione fiscale la maggior parte dei loro redditi e delle loro ricchezze.

Allora? Visto che non vuoi combattere la ricchezza ritenendola sterco del demonio come pensi di curare la tua rabbia di riformista?

Semplice. Quello che va cambiato non è il livello delle aliquote, ma il modo con cui si valuta il monte imponibile. Dobbiamo partire dalla constatazione che il reddito da lavoro e di impresa cresce molto meno velocemente dei redditi da rendita finanziaria e immobiliare. Sono i soldi che producono soldi mentre il lavoro (con le dovute eccezioni di quello degli amministratori delegati) e l’impresa sono a fatica in grado di riprodursi.

A mio parere (ma prima di me e in modo molto più autorevole lo propongono fior di economisti come Piketty) bisogna riportare a un’unica base imponibile e a un’unica imposta progressiva tutti i redditi, che siano generati dal lavoro, dal capitale investito in imprese, dagli immobili e dalle attività finanziarie. Dobbiamo eliminare l’anacronistica separazione delle fonti di reddito e soprattutto smettere di avere gran parte di queste fonti assoggettate a prelievi non progressivi e spesso forfettari.

In questo modo potremo restituire alla fiscalità una sua credibilità e riportarla a essere uno strumento per regolare le disuguaglianze. Per inciso trovo inconcepibile che in una società che ci propina la favola del merito per giustificare i guadagni plurimilionari di sportivi, allenatori e manager, non si riesca ad affermare che la ricchezza ereditata è frutto di pura fortuna. Una tassa di successione, pur con tutte le franchigie necessarie a non scoraggiare il risparmio dei genitori, rappresenta il primo tassello di un percorso di recupero dell’equità.

Ma una volta reso più equo il fisco sapremo fare meglio di Di Maio e abolire la povertà? Certo che no. In una società che non voglia essere utopicamente egualitaristica ci sarà sempre una fetta di popolazione relativamente povera perché, pur rendendo più omogenee le condizioni di partenza, non tutti sapranno o potranno percorrere lo stesso cammino. Bisogna fare i conti con gli inciampi della vita come malattie, incidenti ma anche, per dirla con Matteo Renzi, i diversi talenti.

Se un grado di disuguaglianza è insito nelle cose e assolutamente accettabile quello che non posso accettare è una disuguaglianza scandalosa e soprattutto una povertà che da relativa diventa assoluta, diventa miseria.

In attesa che maturino le condizioni economiche e culturali perché si affermi un reddito universale, questo sì frutto maturo di una fiscalità equa e veramente progressiva, penso che dobbiamo urgentemente occuparci dei poveri.

Secondo l’Istat a determinare l’aumento della disuguaglianza è stato principalmente l’incremento dei redditi non da lavoro di cui ha beneficiato essenzialmente il decile più ricco delle famiglie italiane.

In altri termini i più ricchi stanno accumulando patrimoni che li rendono ancora più ricchi. Eppure, la ricchezza patrimoniale dei cittadini italiani non sarebbe trascurabile anche per le classi meno abbienti, basterebbe poter contare su un rendimento adeguato o almeno decente del patrimonio pubblico che essi possiedono.

Le stime più aggiornate della Ragioneria dello stato relative al patrimonio non finanziario dello stato centrale portano a valori di circa 300 miliardi. Da questo patrimonio oggi non si estrae valore mentre sarebbe possibile accrescere il livello di entrate legate all’uso del patrimonio.

Ad esempio, le concessioni demaniali non hanno un adeguato rapporto con i valori economici delle attività che le utilizzano. I canoni di concessione delle spiagge sono stati un esempio assai citato. Molti analisti stimano che questi rappresentino meno del 4% del volume di affari degli stabilimenti balneari. Le concessioni autostradali o quelle delle frequenze comportano entrate molto limitate in raffronto al volume di affari generato. Di più: gli oneri sono interamente riversati sugli utenti che finiscono col pagare due volte (non ricevendo il giusto valore e comunque pagando con la tariffa): peggio ancora, spesso è lo stato a scegliere di far pagare l’utente al posto del gestore (vedi la tassa di concessione governativa sui telefoni). A fronte delle difficoltà di estrarre reddito dal proprio patrimonio lo stato ha spesso scelto la strada della dismissione (notare il verbo utilizzato dalla burocrazia che segnala la volontà di disfarsi dei beni, di non doversene più occupare, piuttosto che quella di ricercarne la miglior valorizzazione sul mercato). 

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