venerdì 29 maggio 2020

Trump, Twitter e la battaglia dei social, senza eroi e con molti sconfitti



da: https://www.corriere.it/ - di Massimo Gaggi

Da Silicon Valley al Congresso Usa, fino a Obama: tutti hanno fallito nel regolamentare l’influenza delle Reti sociali sulla formazione della pubblica opinione

La decisione di Donald Trump di intervenire con un ordine esecutivo presidenziale nel delicatissimo campo dell’informazione diffusa dalle reti sociali è criticabile da almeno tre punti di vista. In primo luogo per le motivazioni: il presidente non nasconde di essersi mosso non per correggere gli squilibri che si sono creati man mano che i pionieri della Silicon Valley sono diventati giganti, ma per punire reti che teme possano danneggiarlo (o non supportarlo adeguatamente) nella corsa verso la rielezione. C’è poi il dato istituzionale: secondo molti giuristi tentare di alterare il quadro definito dalle leggi del Congresso con atti amministrativi è una forzatura. Infine, è tutta da verificare l’efficacia dello strumento messo in campo: non sarebbe la prima volta che Trump emette un ordine esecutivo che non porta a risultati concreti perché inapplicabile o perché viene subito contestato nei tribunali.

Da Obama a Trump
Quella sulla regolamentazione delle piattaforme sociali si delinea come una battaglia senza eroi e, per adesso, con molti sconfitti: sconfitti i giganti della Silicon Valley che si sono sempre opposti a ogni forma di regolamentazione anche esercitando pressioni lobbistiche
schiaccianti. Pretendevano di essere ambasciatori del bene assoluto e di non avere responsabilità davanti alla politica e alla società. Ma sconfitto è anche il Congresso che, quando il vento è cambiato e si sono create le condizioni per intervenire, non ha saputo andare oltre i processi mediatici e proposte di legge che sembravano più rappresaglie che progetti di riforma. C’è, infine, la sconfitta postuma di Obama che per otto anni ha visto crescere gli squilibri informativi e le diseguaglianze tecnologiche senza intervenire, salvo sentenziare, poco prima di lasciare la Casa Bianca, che quella delle diseguaglianze sarà la sfida decisiva del futuro.

Stile e sostanza
Trump, come al solito, si muove con prepotenza e con gli occhi fissi sulle urne del 3 novembre, ma va a toccare un problema reale: l’irresponsabilità dei grandi tycoon della Silicon Valley che pretendono di autoregolamentare la loro immensa influenza sulla formazione della pubblica opinione soprattutto in campo politico. Aziende spesso prive di cultura politica e istituzionale decise a massimizzare il profitto invadendo anche il campo dell’editoria, forti di un’assoluta impunità. Solo in tempi recenti questi gruppi si sono posti il problema di limitare la circolazione di post e video falsi o offensivi. Scoprendo la difficoltà di costruire un sistema di controllo dei contenuti capillare ed equilibrato. Ieri il New York Post ha mostrato che il capo del «controllo dei fatti» di Twitter, Yoel Roth, ha una storia di attivista politico di sinistra che ha espresso giudizi durissimi su Trump. Cosa che ha consentito al presidente di sostenere che «sono editori di parte, non entità neutrali: è come se una società telefonica censurasse le vostre chiamate».

Twitter vs Facebook
I leader di queste industrie, intanto, si sono divisi su cosa è giusto fare, come dimostra la contrapposizione di ieri tra il capo di Twitter, Jack Dorsey, e il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg: col primo che ha cercato di difendere la scelta di sottoporre a fact checking un tweet nel quale il presidente giudicava fraudolenti i voti inviati per posta (tesi falsa ma sostenibile, visti alcuni, limitati precedenti di uso improprio del voto a distanza) mentre un altro post nel quale Trump accusa un giornalista suo avversario di essere un assassino non è stato cancellato. Un modo di procedere approssimativo che ha dato a Trump la possibilità di accusare le piattaforme digitali di «censura selettiva» mentre Zuckerberg ha sentenziato che i social media non possono pretendere di essere gli arbitri della verità.

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