mercoledì 5 dicembre 2018

Feodor Dostoevskij: Delitto e castigo / 2




Capitolo II

Raskòlnikov non era abituato a stare tra la gente e, come già ho detto, rifuggiva da qualsiasi compagnia, specialmente negli ultimi tempi. Ma ora, ad un tratto, qualcosa lo attirava verso gli uomini, un mutamento avveniva in lui: provava un ansioso desiderio di riavvicinarsi ai suoi simili. Dopo quello stato di concentrata angoscia, di cupa eccitazione, che durava da un mese, era tanto stanco che anelava a respirare, sia pure per un minuto solo, l’aria di un mondo diverso, qualunque esso fosse, e ora si tratteneva con piacere in quella bettola nonostante il sudiciume dell’ambiente.
Il padrone del locale era in un altro ambiente, ma spesso entrava nella stanza principale, scendendo chi sa da dove per una scaletta. Prima d’ogni altra cosa comparivano i suoi eleganti stivali lustri dai larghi risvolti rossi. L’uomo portava un gabbano senza maniche e un panciotto di raso nero, terribilmente macchiato di grasso, non aveva cravatta e il suo viso sembrava unto d’olio come una serratura. Dietro il banco c’era un ragazzetto sui quattordici anni. Ce n’era un altro, quasi bambino, che serviva chi ordinava qualcosa. Vi erano fette di cocomero, biscotti scuri, pesce tagliato a piccoli pezzi: da tutta questa roba esalava un odore pessimo. Si soffocava a tal punto che non si poteva restare seduti e c’era un puzzo di vino tanto forte che chi respirava quell’aria, anche per cinque minuti, si sentiva ubriaco.

Incontriamo a volte persone che non conosciamo affatto, ma che destano in noi subito, fin dal primo sguardo e, per così dire, di colpo un grande interessamento, sebbene non si sia scambiata ancora una sola parola. Una tale impressione l’ebbe Raskòlnikov guardando l’avventore che sedeva in disparte e sembrava un impiegato a riposo. In seguito il giovane la ricordò spesso quella prima impressione, l’attribuì anzi a un presentimento. Allora gettò continue occhiate all’impiegato, certamente anche perché quello fissava lui con insistenza e si vedeva che aveva una gran voglia di attaccare discorso. Guardava gli altri avventori che erano nella bettola, e anche il padrone, come se fosse abituato a vederli, e perfino con un’espressione di noia e con una sfumatura d’altezzoso disdegno, considerandoli forse persone inferiori per condizione e per mentalità, con le quali non gli conveniva parlare. Era un uomo di oltre cinquant’anni, di statura mezzana e di complessione robusta, brizzolato, la cui testa era in gran parte calva e il cui viso era giallo, anzi verdognolo e gonfio a causa delle continue sbornie. Fra le palpebre tumide brillavano due occhietti arrossati, simili a spiragli, piccoli ma molto vivaci. Ma in lui v’era qualcosa d’assai strano: nel suo sguardo brillava quasi un raggio di entusiasmo – forse v’era anche un pensiero, un’espressione di intelligenza – e nello stesso tempo sembrava che vi balenasse la follia.          

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