giovedì 22 marzo 2018

Facebook: Cambridge Analytica, il caso dalla A alla Zuckerberg



Dalla raccolta dei dati tramite il test sul social network alle scuse di Mark Zuckerberg passando per le manovre dello stregone Steve Bannon e le rivelazioni dell’analista Christopher Wylie: chi, cosa e perché del caso che sta scuotendo Facebook
di Simone Cosimi


Con le dichiarazioni di Mark Zuckerberg si chiude la prima fase del caso Cambridge Analytica. Iniziata di certo non lo scorso 16 marzo ma almeno cinque anni fa. Tuttavia negli ultimi giorni una vicenda nella sostanza abbastanza semplice -  dati raccolti da un'app di Facebook con metodi fino al 2014 consentiti e in seguito illegalmente ceduti a una società che li ha usati per confezionare la sua propaganda online - si è mescolata a numerosi elementi, livelli di lettura, protagonisti e coprotagonisti, tanto da partorire un serpentone in cui è sempre più complesso identificare nomi, ruoli, sviluppi e conseguenze. Proviamo a fare ordine.

La premessa
Fra 2013 e 2015 lo psicologo e matematico russo-americano 32enne Aleksandr Kogan, ricercatore a Cambridge e titolare della società Global Science Research, con la scusa di effettuare una raccolta dati per una ricerca accademica, sviluppa
e diffonde un'applicazione interna a Facebook chiamata "thisisyourdigitallife". Una specie di quiz sulla personalità che appare simile ai milioni che popolano il sito. Aveva ovviamente già fatto cose simili in passato, per esempio in Russia. La "mette in moto" assoldando collaboratori su una piattaforma di microlavoretti digitali gestita da Amazon, Mechanical Turk, in modo che a cascata gli intrecci del nucleo di partenza possano prima condurre all'iscrizione di circa 300mila persone e poi, a scalare, alla raccolta di informazioni su 51 milioni di americani. Anche se per alcuni la cifra sarebbe sovrastimata. In ogni caso, mentre all'epoca tutto questo era legale, dal 2014 il margine di manovra concesso da Facebook agli sviluppatori di terze parti è stato ristretto: adesso non si possono più raccogliere informazioni degli utenti che interagiscono con gli iscritti a un qualche servizio senza che anche i primi abbiano dato l'autorizzazione. In precedenza, invece, un'app poteva raccogliere una grande quantità di dati anche sulle attività degli "amici degli iscritti", per così dire.

Il fatto
Questa enorme mole di informazioni - la scoperta è di Facebook ma risale almeno a tre anni fa - viene ceduta, non si sa in cambio di cosa, qualcuno parla di 800mila dollari, alla società britannica Strategic Communication Laboratories, in particolare al suo braccio armato per l'analisi dei dati a scopi politici, Cambridge Analytica. Questo passaggio è vietato dalle regole del social network, che in particolare proibiscono la vendita a terze parti o per scopi pubblicitari di dati raccolti per ragioni, almeno formalmente, accademiche. In realtà il lavoro di Kogan era già noto da tempo, così come la sua pervasività. Inferiore a quella scatenata dalle campagne elettorali di Barack Obama, il cui punto di partenza fu tuttavia un'applicazione esplicitamente diffusa con fini di coinvolgimento politico.

Di chi è la Cambridge Analytica
La società non è certo popolata da personaggi qualsiasi. Finanziata coi soldi del 71enne miliardario statunitense Robert Mercer, imprenditore, potente coamministratore del fondo Renaissance Technologies, sostenitore della prima ora di Donald Trump, era guidata dal Ceo Alexander Nix (ora sospeso). Ma per un periodo, quello della sua nascita, era stata di fatto accudita e cullata dal 64enne Steve Bannon, giornalista e paladino dell'alt-right Usa, fondatore del sito Breitbart News ed ex stratega di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. 

Sarebbe stato Bannon a intuire le potenzialità di certe soluzioni sviluppate per esempio da un altro ricercatore, Michal Kosinski (che avrebbe interrotto rapidamente i rapporti con Kogan e con CA) per utilizzare i big data in chiave elettorale e propagandistica sui social network. Ma, ovviamente, in modo estremamente pervasivo, senza che quel flusso di notizie, contenuti, influenze appaia manovrato dall'esterno. Più in generale, Cambridge Analytica sembrerebbe il prototipo di un comitato elettorale digitale 4.0 in grado di sfoderare ogni genere di mezzo, vecchio e nuovo, per cercare di influenzare il voto. Su tutti i metodi, però, ci sarebbe la capacità di incrociare di big data e modelli di valutazione della personalità basati su una quantità di "data point", elementi personali ma anche più strettamente legati a gusti e tendenze, per identificare milioni di "bersagli" pronti a essere colpiti. Facebook era ed è una delle fonti di questa profilazione psicografica, una delle più appetitose. Che questo bombardamento abbia avuto successo, influenzando davvero gli esiti elettorali per esempio negli Stati Uniti (ma la società dice di aver lavorato in oltre 200 tornate elettorali nel mondo) resta tutto da verificare.

In ogni caso, secondo il 28enne ex dipendente e analista Christopher Wylie, fonte primaria delle inchieste di Observer, The New York Times e Channel 4, è Bannon a coordinare direttamente le prime mosse di Cambridge Analytica per l'acquisto di dati, compresi i profili di Facebook, spendendo quasi un milione di dollari. Di altri 10 si era in qualche modo fatto garante l'anno prima per finanziare il lancio di quella società di analisi. "Dovevamo avere l'approvazione di Bannon per qualsiasi cosa, era il capo di Nix, che non poteva spendere nulla senza l'approvazione" ha spiegato Wylie al Washington Post.

Cosa viene contestato a Facebook
Facebook è improvvisamente finita nella tempesta la scorsa settimana, dopo le inchieste firmate da Observer, The New York Times e Channel 4, perché accusata di aver saputo da tempo dell'illecito travaso di dati ma, punto primo, di non aver informato gli utenti coinvolti e, punto secondo, di essersi fidata delle certificazioni fornite da Kogan e da Cambridge Analytica rispetto all'avvenuta distruzione del pachidermico database in loro possesso. Quelle informazioni non erano state affatto distrutte ma anzi, come ha spiegato Wylie, sono state utilizzate fino in tempi recenti per profilare in profondità gli utenti e sottoporre loro flussi di informazioni, notizie e contenuti utili a sostenere la candidatura di Donald Trump. 

Dunque Facebook è sotto accusa per non essere stata in grado di garantire la tutela delle informazioni, per non averne impedito in modo efficace il mercimonio e lo scambio, per non essersi assicurata dell'effettiva eliminazione (cosa che vorrebbe fare ora, con una montagna d'inchieste in corso) e per non aver messo al corrente gli utenti coinvolti. Prova ne sia la sospensione degli account della società e di Kogan (ma, incredibilmente, anche della fonte Wylie) solo lo scorso 16 marzo. Una ferita profondissima nel rapporto di fiducia fra piattaforma e utenti: i dati sono la moneta prima del funzionamento di queste piattaforme ma questo non significa che possano essere raccolti ed estorti in modo pretestuoso (Kogan), rivenduti (Cambridge Analytica) e lasciati circolare pur dopo la certezza della loro illecita cessione (Facebook). 

Inoltre, dai movimenti tellurici in atto a Menlo Park parrebbe che i vertici della piattaforma non abbiano seguito gli avvisi del capo della sicurezza Alex Stamos, destinato a cambiare incarico se non a lasciare il gruppo nel giro di qualche mese, così come di non aver mai realizzato dei controlli approfonditi sui margini di manovra concessi fino al 2014 agli sviluppatori, come ha spiegato l'ex capo della privacy del social, Sandy Parakilas, in azienda fra 2011 e 2012.

Le richieste delle autorità internazionali
Fin qui la storia. Mentre le risposte di Zuckerberg sono arrivate nella serata (italiana) di mercoledì 21 marzo e possono essere sintetizzate proprio nel riconoscimento della rottura di quel patto di fiducia e nell'individuazione di nuove soluzioni, la vicenda va accavallandosi a inchieste internazionali. Su tutte quella in corso da mesi negli Stati Uniti per mano del procuratore speciale Robert Muller, che indaga sulle presunte interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016. Dall'estate del 2016 Cambridge Analytica ha infatti lavorato per la campagna di Trump dietro sponsorizzazione dello stesso, onnipresente Steve Bannon. Dell'intreccio farebbe parte anche Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza di Trump poi dimessosi a causa della sua "ricattabilità da parte della Russia". Allo stesso modo il Regno Unito vuole vederci chiaro, visto che Cambridge Analytica avrebbe lavorato anche a favore dell'uscita del Paese dall'Unione Europea in occasione del referendum del 2016. Così come, pare, per un paio di formazioni politiche italiane. Per questo Zuckerberg è stato convocato dalla commissione parlamentare britannica sulla Cultura,
i Media e il Digitale presieduta dal conservatore Damian Collins così come dal Parlamento europeo. Intanto negli Stati Uniti è parttia la prima class action contro Facebook e una serie di citazioni dai suoi azionisti.

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