da: Il Fatto Quotidiano - 25 agosto 2012
La Repubblica e Il Fatto,
Zagrebelsky e Scalfari: quello che Ezio Mauro non dice
di Marco Travaglio
Mica facile salvare capra e cavoli, anzi Zagre e Scalfari. Ieri Ezio
Mauro ha provato, con abilità dialettica e qualche maligna
allusione al Fatto,
a mettere d’accordo gl’illustri litiganti di Repubblica:
il fondatore Eugenio Scalfari e il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Ma, a nostro modesto avviso, ci è
riuscito solo in parte. Perché ha dovuto sacrificare un bel po’ di
quell’“obbligo alla verità” e al “giornalismo” a cui si è richiamato.
1. Duello a uno
“Il caso della trattativa Stato-mafia e del
contrasto tra la Procura di Palermo e il Quirinale… La manovra contro il
Quirinale…”. Non c’è mai
stato alcun “contrasto” tra Procura e Quirinale, né tantomeno alcuna “manovra” contro il Colle. Anzi, tutto il contrario. La Procura
ha chiesto e ottenuto dal Gip di intercettare Nicola Mancino,
applicando la legge e scoprendo poi che Mancino parlava col consigliere
giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, e con lo
stesso Napolitano. E’ stato Napolitano ad attaccare la Procura di Palermo,
accusandola di aver leso sue presunte prerogative costituzionali e
trascinandola dinanzi alla Consulta.
2. Nessun attacco
“L’indagine è meritoria, come dicevo due mesi
fa. Ma oggi – aggiungo – chi la ostacola? La Procura l’ha conclusa con le
richieste di rinvio a giudizio, in piena libertà, com’è giusto, ora tocca al
Gip decidere sugli indagati eccellenti. E allora?
È un falso palese dire che si
vuole bloccare il lavoro di Palermo, anzi è un inganno ai cittadini in buona
fede”. Quindi i 130mila e più
cittadini (compresi Zagrebelsky, Barbara
Spinelli e altri editorialisti di Repubblica)
che hanno firmato l’appello del Fatto a
favore dei pm siciliani sono stati ingannati: la Procura di Palermo ha potuto
indagare “in piena libertà” e quel che è accaduto dopo non ha alcun riflesso
sul processo, che ormai è in mano al Gup (non al Gip) e che proseguirà
serenamente senza intoppi. Le cose non stanno così. Contro l’indagine
“meritoria”, Scalfari ha scritto parole di fuoco, accusando i pm che l’hanno
condotta di ogni sorta di “abusi”, “illegalità”, “scarsa professionalità” e
soprattutto di non aver combinato nulla in vent’anni di lotta alla mafia (“Ci
sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent’anni si svolgono
a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati”).
Inoltre, dalle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio risulta che D’Ambrosio – che
diceva di agire in nome e per conto, anzi su disposizione del “Presidente” Napolitano – si dava da fare per
neutralizzare l’inchiesta di Palermo tramite il Pg della Cassazione e il
procuratore antimafia Grasso.
E solo il diniego di Grasso a quelle pressioni ha consentito che l’inchiesta si
chiudesse “in piena libertà”. Non lo diciamo noi: l’hanno scritto su Repubblica Attilio
Bolzoni e Salvo Palazzolo (“D’Ambrosio
seguiva l’inchiesta sulla trattativa, sperava in un ‘coordinamento’ che di
fatto sfilasse ogni potere d’indagine ai pm siciliani e ragionava sul da farsi
con Mancino… Le telefonate intercettate stanno scoprendo un eccessivo attivismo
al Quirinale sulla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il
nome di Napolitano”). Inoltre Mauro dimentica che, appena chiusa l’indagine, il
Colle ha trascinato la Procura alla Consulta
tramite l’Avvocatura dello Stato con accuse gravissime. E i pm Messineo e Di Matteo si son
visti aprire dal Pg della Cassazione (lo stesso attivato da Napolitano e D’Ambrosio)
un fascicolo disciplinare. Lo scorso anno Berlusconi
trascinò alla Consulta il Tribunale di Milano che pretendeva di giudicarlo per
il caso Ruby, anziché passare la palla al Tribunale dei ministri (anzi alla
Camera, che avrebbe negato l’autorizzazione a procedere), in quanto Ruby era la
nipote di Mubarak
e il reato era ministeriale.
Bene, anzi male: anche allora l’inchiesta era
già stata conclusa “in piena libertà” e spettava al Gip prendere le sue
decisioni. Eppure Repubblica polemizzò giustamente col Cavaliere
e col centrodestra, accusandoli di attaccare, isolare e delegittimare i
magistrati milanesi. Evidentemente perché è difficile per un magistrato
celebrare un processo “in piena libertà” sapendo di aver contro il governo e il
Parlamento (caso Ruby), e a maggior ragione sapendo di avere contro il governo,
il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Pg della Cassazione, un pezzo
del Csm, l’Avvocatura dello Stato e la grande stampa (caso trattativa). Infatti
non il Fatto, ma Zagrebelsky, ha scritto che, senza volerlo,
Napolitano col suo conflitto è divenuto il “perno di un’operazione di
discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che
operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo
considerare la ‘trattativa’ tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia”.
3. Improprio a chi?
“Il comportamento dei consiglieri di Napolitano
secondo quelle telefonate è imprudente e improprio perché sembrano consigliare
più il testimone Mancino che il Presidente”. Già, ma siccome i consiglieri (che poi sono uno soltanto:
D’Ambrosio, poi scomparso) confidano a Mancino di agire su ordine del
“Presidente”, che poi firma una lettera ufficiale ma segreta al Pg della Cassazione,
ne dovrebbe derivare che “imprudente e improprio” non è il consigliere che
obbedisce agli ordini, ma il Presidente che li dà.
4. La fuga che non c’è
“Il Presidente non ritiene che i testi delle
sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue
prerogative più che del caso specifico”. Intanto, nessuno li ha divulgati: la Procura li ha segretati e non
se n’è saputo nulla. Quindi la prerogativa della riservatezza, ove mai
esistesse, non sarebbe stata violata da nessuno. Il caso però vuole, come ha
spiegato e rispiegato Franco
Cordero su Repubblica, che quella prerogativa
non esista. Nessuna norma costituzionale o procedurale vieta di intercettare né
direttamente, né tantomeno indirettamente il capo dello Stato. E’ vietato
soltanto processarlo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni,
tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”: e
infatti nessuno l’ha neppure indagato. Ma lo dice lo stesso Mauro che quelle
tra Mancino e Napolitano sono “conversazioni private”: dunque non rientrano
nell’esercizio delle funzioni
presidenziali.
Dunque i magistrati potevano benissimo intercettarle, sul telefono di Mancino.
Ma avrebbero potuto intercettarle anche su quello del Presidente se, per
assurdo, avessero sospettato un Presidente della Repubblica di reati commessi
al di fuori dell’esercizio delle funzioni (puta caso: bancarotta, omicidio,
traffico di droga o di armi).
5. Il buco che non c’è
“(Napolitano) solleva un conflitto di
attribuzione su un ‘buco’ normativo: può il Capo dello Stato essere
intercettato, sia pure indirettamente?”. Abbiamo già spiegato, sulla scia di Cordero, che non esiste alcun buco
normativo: il costituente e il legislatore non hanno proibito
di indagare sul Capo dello Stato per fatti estranei alle sue funzioni non per
una dimenticanza, ma perché convinti che sia giusto così. Ma paradossalmente quel “buco” normativo lo
nega anche Napolitano. Il quale, sollevando il conflitto contro la Procura
di Palermo, sostiene che la norma che vieta le sue intercettazioni indirette,
la loro valutazione da parte dei pm, il loro esame in contraddittorio fra le
parti davanti al gip, esista eccome e la Procura
di Palermo l’abbia violata. Nel decreto del 16 luglio, accusa i
pm di “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della
Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”.
6. Intercettata la Merkel?
“Sollevo una questione di semplice buon senso
repubblicano… Il lavoro del Presidente della Repubblica, fuori dagli impegni
istituzionali solenni e pubblici, è in gran parte fatto di colloqui, incontri,
conversazioni (anche telefoniche)… E’ interesse di Napolitano (posto che non si
parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste
conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona
pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere,
già esclusi da tutti gli inquirenti. Facciamo un’ipotesi astratta, di scuola.
Quante telefonate avrà dovuto fare il Capo dello Stato nelle due settimane che
hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da palazzo
Chigi? Quante
conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano più con
il governo, i mercati impazzivano, il Paese era allo sbando senza una guida
esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se quelle conversazioni – che hanno
necessariamente preceduto e preparato l’epilogo istituzionale di vent’anni di
berlusconismo – fossero diventate pubbliche, quell’esito sarebbe stato più
facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più
infuocate, fino a rivelarsi impossibile?”. A parte il fatto che, ripetiamo, le due telefonate
Mancino-Napolitano non sono state divulgate, ancora una volta lo dice Mauro
stesso: conversazioni nell’ambito del “lavoro del Presidente… fuori dagli
impegni istituzionali solenni e pubblici”. La risposta è nella Costituzione:
fuori dall’esercizio delle funzioni, il Presidente è un cittadino come gli
altri. E non è affatto una minaccia, anzi è una garanzia per i cittadini e per
la democrazia tutta il fatto che il capo dello Stato
sappia di poter essere intercettato dalla magistratura: così sa in partenza che
un giorno potrebbe dover rispondere di quel che fa e dice, e starà molto
attento ad attenersi a uno stile e a un contegno consoni all’alta carica che
ricopre.
Male non fare, paura non avere. Non abbiamo
sempre detto, citando i paesi anglosassoni (negli Usa tutti i colloqui del
Presidente vengono addirittura registrati), che le istituzioni sono “case di
vetro” sottoposte alla massima trasparenza? Perché questo, improvvisamente, non
dovrebbe valere per il Quirinale?
Se per caso fossero stati legittimamente intercettati colloqui del Presidente
relativi all’ultima crisi di governo che ha portato alla fine del terzo governo
Berlusconi, noi non troveremmo nulla di scandaloso che fossero resi noti: anzi
se, come Napolitano ha sempre assicurato, si è attenuto scrupolosamente al
dettato costituzionale, sarebbe suo interesse dimostrare che le cose stanno
davvero così e che abbiamo almeno un politico che dice in privato le stesse
cose che dice in pubblico. L’obiezione è nota: e se il Presidente affronta temi
di sicurezza nazionale, insomma segreti di Stato? Ma intanto le intercettazioni
non avvengono a opera dello Spirito Santo: per essere intercettati bisogna
essere sospettati di un reato o parlare con qualcuno coinvolto in un reato.
Dunque si può tranquillamente parlare con la Merkel e con Hollande senza
essere ascoltati (da un pm, almeno). Qui però Napolitano non parlava con
Hollande o Merkel, ma con Mancino:
e sarebbe stato sommamente incauto a trattare questioni di Stato al telefono,
peggio ancora con un privato cittadino (qual è Mancino, per giunta coinvolto
nel caso trattativa).
Peraltro lo stesso problema si pone per i
membri del governo: quanti segreti trattano il presidente del Consiglio, i ministri dell’Interno,
della Difesa e degli Esteri che oltretutto, a differenza del Capo dello Stato,
sono responsabili dei loro atti? Eppure nessuno di essi è coperto da alcuna
immunità, in quanto membro del governo (salvo che sia parlamentare). Tranne Monti (senatore a
vita), tutti i ministri dell’attuale governo sono intercettabili,
indirettamente e anche direttamente, e le eventuali intercettazioni, quando
cade il segreto, possono essere divulgate. Tutti i giornali, Repubblica
in testa, hanno diffuso fiumi di “conversazioni private” dell’ex premier
indirettamente intercettate (direttamente non si poteva, lui è deputato). E non
abbiamo cambiato idea, noi: era giusto pubblicarle, perché avevano, anche
quelle sulla sua vita sessuale, un rilievo pubblico.
7. Diversamente concordi
Su un punto Mauro ha ragione: “Fare
di ogni erba un fascio” e dire che “destra e sinistra sono
uguali” è qualunquismo. Ma se chi ha difeso il diritto-dovere
della stampa di diffondere conversazioni private e in certi casi prive di
rilevanza penale, ma di enorme interesse pubblico, quando c’era di mezzo Berlusconi, oggi sostiene il contrario solo
perché la voce intercettata è quella di Napolitano, beh, la tentazione di fare
di ogni erba un fascio e dire “tutti uguali” sorge spontanea.
8. Diversamente alti
Può darsi che in quella che Mauro recinta come “la
nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra)”, “il campo ‘democratico’”
(tutti gli altri sono totalitari), si siano infiltrate in nome dell’antiberlusconismo
“forze,
linguaggi comportamenti e pulsioni oggettivamente di destra”.
Direbbe Troisi:
“Mo’ me lo segno”. Ma è un po’ ingeneroso, oltreché falso, affermare che per
costoro “Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo
strumento per suonare la propria musica”. In questi vent’anni han fatto molto più male a
Berlusconi avversari irriducibili non di sinistra come Montanelli,
Sartori e l’Economist
che la sinistra politica e giornalistica, troppo impegnata nelle libagioni
bicamerali da cui non s’è mai riavuta (non sto a ricordare chi fu il primo a
raccontare in tv i rapporti fra Berlusconi e la mafia e tra Schifani e alcuni tipetti poi condannati per
mafia, e l’atteggiamento assunto nelle due circostanze da Repubblica).
Quanto a chi “canzonava il Cavaliere in un linguaggio da Bagaglino, con
un ‘calandrinismo’ che rompeva la cornice drammatica in cui stava avvenendo
quella prova di forza, deridendo i nomi (incolpevoli, almeno loro) delle
persone, scherzando coi loro difetti fisici”, ullallà, che
seriosità. Suvvia, Ezio, un po’ di satira non ha mai fatto male a nessuno. E
per trovare chi deride i nomi (te lo
dice un Travaglio)
o i difetti fisici, non c’è bisogno di scomodare “la
destra peggiore” del “Borghese degli anni più torvi”: bastano le vignette di Forattini su Repubblica
(Fanfani basso, Andreotti gobbo e Spadolini grasso); i migliori spettacoli di Benigni
su Ferrara ciccione e Berlusconi nano; e le strepitose
collezioni del Cuore diretto da Michele
Serra, coniatore di definizioni memorabili come “Bottino
Craxi”, “Craxitustra”, “Mario
Seni”, la Dc “Grande Troia”, i politici con “la
faccia come il culo”, fino al “nano ridens” e al “fratello scemo”. Comunque
giuriamo solennemente che in futuro ci atterremo al più rigoroso politically
correct stile Repubblica: mai più nani e Cainani,
solo verticalmente svantaggiati e diversamente alti.
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