da: Il Fatto Quotidiano – 21 agosto 2012
Eugenio,
che dici?
di Marco
Travaglio
Domenica,
su Repubblica, Eugenio Scalfari ha risposto a
Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale nonché
illustre collaboratore del suo giornale, che venerdì aveva fatto a pezzi il
conflitto di attribuzione di Napolitano contro la Procura di Palermo e gli
argomenti dei supporter del Quirinale, Scalfari in
primis. Ma, oltre a contrapporre i propri argomenti a quelli di
Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica lo ha anche
attaccato personalmente, dipingendolo come uno sprovveduto, ignorante,
disinformato e scorretto (“Zagrebelsky
mostra di non rendersi conto…”, ha commesso “una
scorrettezza che è lui il primo a considerare grave”, “non dovrei esser io a
ricordare a un ex presidente della Corte…”, “forse Zagrebelsky non era al
corrente di questo interessante dettaglio”, per non parlare della
“delusione” provocata in lui dall’adesione del giurista all’appello del Fatto per
i magistrati siciliani). E, già
che c’era, ha offeso la logica, la verità storica, la professionalità di tutti
i magistrati antimafia degli ultimi vent’anni e persino la memoria di Giovanni
Falcone.
1.
Cui prodest? “L’articolo di
Zagrebelsky… rafforza e conforta col prestigio giudiziario del suo autore la
campagna in corso da tempo contro il Quirinale… prima ancora che le inchieste
palermitane fornissero un’ulteriore occasione e che ha poi acquistato una
virulenza che va molto al di là del sacrosanto diritto di informazione e di
critica… Invito perciò Zagrebelsky a porsi il problema dell’uso che verrà fatto
da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni”. Scalfari
dipinge una scena di pura fantapolitica: un Napolitano solo e inerme dinanzi
all’assalto
congiunto di forze vastissime e potentissime. La realtà è opposta:
l’intera maggioranza parlamentare (Pdl, Udc, Pd) con l’aggiunta della Lega
stanno acriticamente con Napolitano, così come tutti i tg e i giornali. Gli unici
che si permettono critiche argomentate sulla gestione sgangherata e
autolesionistica del caso Quirinale-Mancino (dunque dopo e non prima degli
esiti dell’inchiesta palermitane) sono: in Parlamento, l’Idv; in edicola, il Fatto ;
sul web, Grillo. Fra i costituzionalisti, solo Zagrebelsky ha criticato il
Presidente, tutti gli altri l’hanno difeso a spada tratta; idem fra i
processualisti, con l’eccezione di Cordero. Ma, siccome “amicus Plato, sed
magis amica veritas”, un giornalista dovrebbe verificare cosa dice la legge e
come si sono svolti i fatti, non chi si “rafforza” e da chi si viene “usati”
sostenendo questa o quella tesi. Altrimenti, a furia di “cui prodest?”, si potrebbe sostenere che gli attacchi di
Scalfari ai pm antimafia rafforzano il Pdl e B., che infatti (vedi Giuliano
Ferrara), difendono Napolitano e persino su Scalfari “usando” i suoi scritti
per screditare la magistratura. Del resto, se un intellettuale deve tenere per
sé le sue critiche a Napolitano per non lasciarle “u s a re ” da chi “attacca
il Capo dello Stato”, perché Scalfari
attaccò almeno tre capi dello Stato come Antonio Segni (per il piano
Solo sull’Espresso),
Giovanni Leone (sull’Espresso) e Francesco Cossiga? Forse che il Capo dello Stato è criticabile e attaccabile solo quando
non piace a Scalfari?
2.
La legge dell’ex . “Sconcerta constatare che
un ex presidente della Consulta si è già espresso (sul conflitto innescato da
Napolitano contro i pm di Palermo, ndr)… Una scorrettezza che è lui il
primo a considerare grave”. Cioè: un ex presidente
della Consulta sarebbe scorretto solo perché commenta un conflitto di attribuzioni
promosso dal capo dello Stato dinanzi alla Consulta di cui non fa più parte? E
allora perché Scalfari non ha accusato
di scorrettezza tutti gli altri presidenti emeriti della Consulta – Mirabelli,
Onida, Capotosti, De Siervo, Casavola e Flick – che quel conflitto l’han
commentato eccome, per dare ragione al Colle? È scorretto commentare per
criticare, mentre è corretto commentare per plaudire? In questo caso Scalfari
confonderebbe la libertà di espressione col dovere di encomio.
3.
Armi pari o impari? “La Corte si è più volte
espressa, in varie occasioni e con vari presidenti della Repubblica, con
sentenze e giudizi contrastanti con decisioni del Capo dello Stato. Ha bocciato
atti da lui firmati, iniziative da lui prese, perfino leggi elettorali da lui
promulgate. Nel caso in questione Zagrebelsky ha caricato il ricorso di
significati che esso non ha”. Insomma nessun duello ad
armi impari e dall’esito scontato (pro-Napolitano), come scrive Zagrebelsky.
Forse a Scalfari sfugge che mai un presidente della Repubblica ha attivato un
conflitto di attribuzioni contro un ufficio giudiziario, tantomeno perché la
Consulta gli conferisca una nuova prerogativa costituzionale (Scalfari invoca
una sentenza “additiva ” o “interpretativa”, ammettendo dunque che quella
prerogativa nel testo della Costituzione non esiste). Insomma, non esistono
precedenti: dichiarare incostituzionale una legge promulgata dal Presidente (tutte
le leggi sono promulgate dal Presidente, altrimenti non entrano in vigore) non
significa bocciare il Presidente, visto che le leggi sono responsabilità di chi
le propone e di chi le approva in Parlamento e il Presidente – come Scalfari e
Napolitano hanno sempre sostenuto – non può respingerle se non in casi
eccezionali e solo in prima battuta.
4. Immunità
da Comma 22. “Il ricorso (di Napolitano
alla Consulta contro i pm di Palermo, ndr) chiede soltanto che… venga
chiarito se l’irresponsabilità politica del Presidente per atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni contempli anche l’inconoscibilità di quegli
atti qualora essi siano ritenuti processualmente irrilevanti”. Inconoscibilità?
Ma quando mai una Costituzione potrebbe
prevedere che gli atti compiuti
da un Presidente nell’esercizio delle
sue funzioni, dunque pubblici per definizione, siano inconoscibili? Questa è talmente grossa che non la sostiene neppure
Napolitano. Il quale invece pretende l’“inconoscibilità” delle sue
conversazioni indirettamente e casualmente intercettate sul telefono di Mancino:
e anche questa è impossibile, visto che anche per distruggerle subito (come
chiedono Napolitano e Scalfari), i magistrati dovrebbero comunque prima
valutare se erano nell’esercizio delle funzioni, dunque ascoltarle e
conoscerle. Scalfari ricorda che la Procura le ha giudicate “processualmente irrilevanti”:
cosa che non avrebbe potuto fare se le avesse distrutte senza ascoltarle. Da un lato si chiede di distruggerle perché relative all’esercizio delle
funzioni e giudicate irrilevanti; dall’altro si pretende che i magistrati non le conoscano e si accusa la Procura (vedi decreto
Napolitano del 16 luglio) di aver leso le prerogative del Presidente nell’atto
stesso di ascoltarle e valutarle. Roba da Comma 22: per ottenere l’e s o n e ro
dalla guerra, il soldato deve dichiararsi pazzo; ma il Comma 22 stabilisce che
chi chiede l’esonero non è pazzo.
5.
La fantavvocatura. “L’Avvocatura dello Stato,
prima che il ricorso presidenziale fosse redatto, era andata in visita alla
Procura di Palermo ed aveva proposto la distruzione delle registrazioni in
questione. Ne aveva ricevuto un rifiuto. E dunque il ricorso. Forse Zagrebelsky
non era al corrente di questo interessante dettaglio”. Per
forza che non era al corrente: questo dettaglio interessante non è mai
avvenuto. Se l’è inventato Scalfari per attribuire alla Procura un conflitto
partito dal Quirinale. Infatti ieri l’hanno smentito la Procura di Palermo e
persino l’amato Quirinale. Il procuratore Francesco Messineo spiega che l’Avvocatura
non ha reso alcuna visita in Procura: ha solo scritto una lettera per sapere se
esistessero conversazioni intercettate Mancino-Napolitano e, se sì, perché non
fossero state distrutte. Il procuratore Messineo ha risposto che, ove mai
esistessero, non avrebbero rilevanza penale (infatti non risultano agli atti
depositati a fine indagine) e spetterà al gip decidere se distruggerle
nell’apposita udienza alla presenza degli avvocati. Se l’Avvocatura avesse proposto alla Procura di distruggerle su due
piedi, fra il lusco e il brusco, senza
passare dal gip e dal contraddittorio fra le parti, in violazione dell’art. 269 del
Codice di procedura, avrebbe
commesso il reato di istigazione a delinquere. E, se questi avessero
accolto la proposta indecente, avrebbero commesso un reato e un illecito
disciplinare. Ma per fortuna nulla di tutto ciò è mai accaduto.
6.
Pm fannulloni.“Ci sarebbero da esaminare i risultati
delle inchieste che da vent’anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che
finora hanno dato assai magri risultati tranne quello – a Caltanissetta –
d’aver fatto condannare… un mafioso accusato dell’omicidio di Borsellino, poi
rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro”.
Dunque, in vent’anni, le Procure antimafia di Palermo e Caltanissetta non han
combinato nulla, se non far condannare un innocente – il falso pentito Scarantino – per via d’Amelio. I procuratori Caselli, Grasso, Messineo, Tinebra, Lari e decine di
loro aggiunti e sostituti si sono
grattati la pancia dal 1992 a oggi. Strano, pensavamo che avessero decapitato
il clan dei corleonesi, facendo arrestare e condannare all’ergastolo
centinaia di boss, fra cui Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca, i Graviano,
Aglieri ecc. rischiando la pelle e scoprendo autori e mandanti diretti delle
stragi e di centinaia di delitti eccellenti, e sequestrando centinaia di
milioni di euro. Evidentemente ci sbagliavamo. Nessun arresto, processo,
condanna, sequestro. Solo un errore giudiziario: quello su Scarantino, peraltro
reo confesso con un’autocalunnia pianificata da dirigenti e agenti di Polizia
che nessun ministro dell’Inter no (nemmeno Napolitano) ha mai ritenuto di
mettere sotto inchiesta disciplinare per scoprire perché e per chi depistarono.
Senza contare che il depistaggio Scarantino è stato poi smascherato dagli
stessi pm di Caltanissetta che, grazie alle rivelazioni del pentito Spatuzza,
hanno istruito il processo di revisione.
7.
La trattativa buona. “Ci sarebbe da distinguere
tra trattativa e trattativa. Quando è in corso una guerra la trattativa tra le
parti è pressoché inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i
morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai
tempi degli anni di piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare
con le Br, e quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare;
socialisti, radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa”. Dunque
quella che per Scalfari fino a due
settimane fa era la “presunta trattativa”, ora è una sicura e sacrosanta
trattativa. Nel 1992 era “in corso
una guerra” fra due “parti”, l’esercito
dello Stato e quello della mafia, che poi si misero d’accordo per “limitare
i danni” (di chi? come?), “seppellire i morti” (di chi? quali?), “curare i
feriti” (di chi? quali?), “scambiare ostaggi” (c’erano ostaggi? e chi li aveva
catturati?). Fu così anche “negli anni di piombo”, anzi solo quando le Br sequestrarono uomini politici
democristiani: prima Aldo Moro, poi Ciro Cirillo. Nel primo caso si tentò di trattare, ma non ci si riuscì. Nel secondo,
ci si riuscì, chiamando in soccorso la camorra di Cutolo. Già, ma la prima volta chi era per trattare
(parte della Dc, Craxi, Martelli, Signorile, Pannella, Sciascia), lo dichiarò alla luce del sole e la
possibile contropartita era un atto legittimo, confessabile e confessato: la
grazia presidenziale a una brigatista non accusata di fatti di sangue, Paola
Besuschio, ma il presidente Leone arrivò troppo tardi. Nel caso Cirillo, chi
trattò lo tenne nascosto, ma fu scoperto dalle indagini dei magistrati. Che
c’entra tutto questo con le stragi? Nulla. Le Br volevano abbattere lo Stato. Cosa Nostra nel ’92 voleva costringere lo
Stato a trattare per stabilire un nuovo patto di convivenza con una nuova
classe politica, visto che la vecchia stava sfarinandosi per Tangentopoli.
Infatti Riina eliminò subito il traditore Salvo Lima e programmò di assassinare
altri politici che avevano tradito i patti o le attese, e poi Falcone che
lavorava con Martelli nel governo Andreotti. “Fare la guerra per fare la pace”,
disse il boss. Lo Stato ufficialmente
dichiarò la guerra e invece si attivò segretamente per fare la pace: la
prima mossa, secondo l’accusa, l’avrebbe ispirata Mannino per salvarsi la
pelle. Riina se ne felicitò con gli altri boss (“si sono fatti sotto”) e,
quando la prima trattativa del Ros sembrò arenarsi, decise di “dare un altro
colpetto” eliminando Borsellino che era
stato informato della trattativa. Nel 1978
chi voleva trattare sperava di
salvare la vita a Moro (anche infischiandosene della morte degli uomini
della sua scorta nella strage di via Fani). Nel 1992 chi trattò provocò indirettamente altri morti. Per salvare i
politici, fu sacrificato Borsellino insieme alla scorta. E poi i civili
morti nelle stragi del ’93 a Firenze, Milano e Roma. Altro che trattare per
seppellire i morti: trattando, si condannarono decine di persone a morte,
perché i boss capirono dall’atteggiamento dello Stato che le stragi “pagavano”.
Non c’erano ostaggi da liberare, anzi lo Stato divenne ostaggio di Cosa Nostra,
in particolare di Provenzano, che aveva agevolato la cattura di Riina e da
allora divenne un intoccabile. Lo Stato non ne ebbe alcun vantaggio: si
salvarono alcuni politici e si seppellì un magistrato onesto che si opponeva al
cedimento dello Stato all’anti-Stato. Scalfari
era contrario alla trattativa per Moro anche perché all’epoca era il
suggeritore del compromesso storico Dc-Pci, mentre Craxi era per trattare anche per spezzare l’asse Andreotti-
Berlinguer. Ora Scalfari si converte
alla trattativa buona con la mafia
perché è il suggeritore del nuovo compromesso storico Pdl-Udc-Pd benedetto dal Colle. I suoi sì e i suoi
no non dipendono dai fatti e dai princìpi, ma dalle convenienze politiche del
momento.
8.
Trattare non è reato. “A nessuno sarebbe venuto
in mente di tradurre in giudizio Craxi, Martelli, Pannella ed anche Sciascia e
molti altri intellettuali che volevano trattare. Qual è dunque il reato che si
cerca, la verità che si vuole conoscere ? ”. Ma nessun
magistrato ha mai incriminato o criminalizzato chi ha condotto o giustificato o
chiesto trattative con terroristi o mafiosi. Se Scalfari leggesse le carte
dell’inchiesta di Palermo di cui si occupa ogni domenica, o almeno i giornali
che le riassumono (compreso il suo), scoprirebbe che nessuno dei 14 imputati è accusato del reato di “trattativa” con la
mafia. Il reato contestato dai pm
a 11 di essi è “violenza o minaccia a
corpo dello Stato”: cioè il ricatto
perpetrato dai boss e dai loro emissari (Riina, Provenzano, Bagarella,
Brusca, Cinà, Ciancimino jr) contro le istituzioni, con l’aiuto di un politico
(Mannino), un aspirante politico (Dell’Utri) e tre ufficiali del Ros (Subranni,
Mori e De Donno). I ministri dell’epoca, rappresentanti dello Stato costretto a
suon di bombe a trattare, furono vittime di quell’estorsione (così come poi il
premier Berlusconi). Ma due di essi, Mancino
e Conso, sentiti come testimoni,
sono stati smentiti da altri testi
ritenuti credibili e da documenti inoppugnabili: dunque sono imputati per
falsa testimonianza, come l’ex capo del Dap Capriotti). Per questo, con buona pace di Valerio Onida e del Corriere che
lo ospita, nessun atto è stato trasmesso al Tribunale dei ministri: perchè
nessun ministro è accusato per alcun atto compiuto nell’esercizio delle sue
funzioni tra il 1992 e il ’94.
9.
Falcone zitto e muto. “Falcone non era un
magistrato che rilasciasse facilmente interviste a destra e a manca”. Il solito giochino di glorificare i giudici
morti per demonizzare quelli vivi. Ma basta consultare gli archivi di Rai, di Mediaset e dei
giornali per scoprire che Falcone era
presentissimo nel dibattito pubblico, politico e giornalistico:
libri-intervista (celebre quello con Marcelle Padovani), colloqui con i
giornali, presenze al Costanzo Show e a Samarcanda, addirittura un programma
tutto suo su Rai2, articoli su La Stampa e suRepubblica.
10.
Falcone insabbiatore. ”Un ultimo ricordo a
proposito dei magistrati che invocano il favore popolare e gli intellettuali
che ritengono necessario darglielo. Falcone… andò in Usa per interrogare il
‘sol – dato’ Buscetta che era lì detenuto. Dopo l’interrogatorio Buscetta gli
disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del
coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già
risposto alle sue domande ed altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva
che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino. Buscetta
riferì alla Commissione antimafia quanto sopra ”. Nella
foga di attaccare a testa bassa i magistrati, Scalfari non si rende conto di rendere un pessimo servizio non solo
alla verità dei fatti, ma anche alla memoria di Falcone, che purtroppo non può più difendersi. Per fortuna
esistono i verbali e le interviste di Tommaso
Buscetta, che ha sempre raccontato il
contrario di quanto gli attribuisce Scalfari: Falcone fece di tutto per
costringerlo a parlare dei politici già nel 1984, ma lui non ne volle sapere perché – dovendo
parlare di Andreotti e altri big, all’epoca potentissimi – ritenne che lo Stato
italiano non fosse pronto per verità così dirompenti. Tant’è che fece il nome
di Andreotti al procuratore Usa Dick Martin (che l’ha testimoniato al
processo), ma non a Falcone. Basta leggere le parole di Buscetta in commissione
Antimafia, al processo Andreotti e nel libro-intervista con Saverio Lodato “La
mafia ha vinto” (Mondadori, 1999): “A Falcone chiesi scusa di non aver detto
tutto, e principalmente della politica. È del 1984 quella mia frase che viene
ricordata spesso: ‘Dottore Falcone, se le dicessi determinate cose, finiremmo
tutti e due al manicomio, io in quello criminale, lei in quello civile’. Io di
politica non volevo parlare per nessuna ragione. E quando Falcone si avvicinava
ai Salvo dovevo parlare di politica. Cercai di sottrarmi persino di fronte alle
intercettazioni delle telefonate che provavano che ero stato ospite a casa
loro. Allora fui costretto a parlare, limitandomi però a raccontare il lato
mafioso della vicenda…”. Al massimo, come ipotizza Maria Falcone
nell’intervista al Fatto, Buscetta confidò
qualcosa a Falcone fuori verbale, ma premettendo che mai l’avrebbe confermato a
verbale. Si decise a fare il nome di Andreotti e di altri politici nazionali e
uomini delle istituzioni solo dopo Capaci, perché ne sentì il “dovere morale”.
Se fosse vero, come scrive Scalfari, che
fu Falcone a tappare la bocca a un Buscetta ansioso di parlare dei
politici, avrebbe violato il principio
costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, addirittura commesso il reato di favoreggiamento ai
politici collusi. Non contento, Scalfari addita il falso Falcone che non fa
domande a Buscetta, anzi lo imbavaglia sui politici, come modello per i pm di
oggi: anch’essi dovrebbero silenziare i pentiti che parlano di trattativa.
Noi
pensavamo che lo scopo della giustizia, e
anche quello dell’informazione, fosse quello di accertare la verità: giudiziaria
nel primo caso, storica nel secondo.
Scalfari
invece suggerisce di non fare domande: c’è il rischio che qualcuno risponda.
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