venerdì 31 agosto 2012

Carlo Maria Martini: “La mia idea di giustizia”


da: Famiglia Cristiana

Per il cardinale Carlo Maria Martini i problemi della povertà, della fame, del sottosviluppo sono centrali per una vera cultura della solidarietà. Pubblichiamo un estratto del suo libro "Sulla giustizia", edito nel 1999 da Mondadori. Il volume raccoglie «semplici riflessioni» del cardinale sull’argomento.

L'amministrazione delal giustizia penale è una delle strutture essenziali della convivenza sociale. La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà, dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all’umano. Ogni persona è parte vitale e solidale della comunità civile; distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte, sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono.

Una domanda pungente. Le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se sono tese al ricupero di chi ha sbagliato, se operano in funzione dell’affermazione e sviluppo della sua dignità. Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? Per quanto riguarda le istituzioni, ci vogliono certamente leggi e ordinamenti che difendono e assicurano il rispetto della vita e dell’incolumità di tutti i cittadini. La sicurezza va garantita. Se tuttavia ci confrontiamo con l’esperienza di chi sta in carcere e di chi sta accanto ai carcerati, scopriamo con amarezza e delusione che la realtà carceraria in Italia (e anche altrove!) spesso non contribuisce al ricupero della persona.

Il carcere come emergenza. La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana, per fermare colui che, afferrato da un istinto egoistico e distruttivo, ha perso il controllo di sé stesso, calpesta i valori sacri della vita e delle persone, e il senso della convivenza sociale. Noi non siamo una società che vive il Vangelo. Se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del «fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», non ci sarebbero né giudici, né condanne. Siamo molto lontani dalla comunità perfetta a cui punta il Vangelo, e quindi abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento. Ma il cristiano – se vuole essere coerente con il messaggio di Dio padre misericordioso che non gode per la morte del peccatore, vuole anzi che si converta e viva e per lui fa festa – non potrà mai giustificare il carcere se non come momento di arresto di una grande violenza. (...)

Pena di morte.
Sono ancora molti gli Stati in cui si applica la pena di morte e, purtroppo, si assiste talora a prassi che sconcertano: dalle condanne per reati politici o di opinione a quelle che sanciscono un processo difettoso e iniquo e che si aggiungono a forme di maltrattamento e di tortura; dalle esecuzioni di massa alle esecuzioni le cui vittime sono adolescenti o anziani. La considerazione di questi fatti sconcertanti induce a intraprendere con forza campagne per l’abolizione della pena capitale. Oggi sembra assai difficile che si possano realizzare le circostanze che, nel passato, avevano indotto molti Stati, anche cristiani, ad applicarla, ritenendo che in certi casi rappresentasse l’unico ed estremo mezzo di difesa della comunità e del bene comune. Nell’attuale momento storico, considerando la più diffusa e approfondita consapevolezza del valore della persona e della sua dignità, come pure i progressi realizzati nella conoscenza delle motivazioni profonde e complesse dell’agire umano, siamo persuasi che in ogni società civilizzata l’ordine può essere salvato, la giustizia assicurata, il delitto intimorito con altre pene e provvedimenti senza ricorrere alla soppressione del reo. (...)

Pentimento e pentiti. Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonata da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, nobilissimo, che dice l’anelito a una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore. (...)

La questione ecologica. Un primo livello è evocato dalla questione ecologica e ambientale. L’esaurimento delle risorse energetiche e delle materie prime da un lato e, dall’altro, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, hanno posto gravi interrogativi circa la ragionevolezza dell’assetto socio-economico che comporta simili conseguenze. Oggetto di preoccupazione, per definire la qualità della vita, non può essere tuttavia solo il degrado ambientale. Il mangiare e il bere, il nascere e il morire, non sono per l’uomo attività e fenomeni esclusivamente biologico- materiali. Essi sono anche espressione dello spirito, modalità di quel linguaggio ordinario che articola il senso della vita e da cui non si può prescindere per determinare i contenuti di una vita veramente buona e giusta, contenuti essenzialmente etici, spirituali. Qualora dunque dovesse prevalere una visione biologica materialistica – sia nella versione tecnocratica sia in quella ecologico-naturalista – la coscienza morale sarebbe esposta a un grave rischio. La questione della disoccupazione. Un secondo livello viene evocato dalla questione della disoccupazione, un tema che oggi sostanzia la qualità della vita e che coinvolge tanto direttamente l’economia. È difficile negare che i meccanismi di mercato, lasciati a sé stessi, operino e possano operare nel senso di una soluzione iniqua, almeno a breve termine, del problema, concentrando su alcuni settori e gruppi di lavoratori il costo – in termini di disoccupazione – delle pur necessarie ristrutturazioni nell’attività produttiva. Non ritengo che l’attuazione di correttivi, per una più equa distribuzione anche del lavoro e del tempo libero, sia da attendersi semplicemente da esigenze di efficienza interna al sistema economico, bensì soprattutto dalla propensione delle categorie più fortunate, a livello civile e politico, a rinunciare in parte ai vantaggi di cui possono godere in favore di categorie gravemente colpite dalla mancanza di lavoro. Emerge qui la tanto controversa parola: solidarietà.

La solidarietà. La solidarietà, spesso fraintesa, è semplicemente la traduzione pratica del senso di appartenenza a una unica comunità civile, quando la comunità sia considerata come luogo in cui, proprio istituendo rapporti di reciproco riconoscimento, si plasma e si definisce l’identità personale di ognuno. È così conferita determinatezza ai bisogni e desideri che schiudono il senso della vita buona e giusta. L’attenuarsi della solidarietà e il crescente individualismo non sono da imputarsi esclusivamente alla cattiva volontà personale. È piuttosto la disarticolazione attuale della società in sistemi e sottosistemi tendenzialmente autonomi e autoreferenziali che induce il cittadino a ritirarsi nel privato, non riuscendo più a scorgere nel proprio ruolo sociale una plausibile ragione di impegno etico globale. A tale livello di profondità deve spingersi la diagnosi della carenza di una solidarietà, che affligge la coscienza collettiva e si manifesta pure nell’organizzazione dell’attività economica. Quale tipo di convivenza umana si sta profilando? Non c’è dubbio che occorre molto coraggio per proporsi la questione di che cosa sia la vita buona; perché di questo si tratta, ultimamente. E come la fatica di Sisifo, sembra un’impresa senza prospettiva di giungere a definitiva conclusione, tanto meno a breve termine.

Una virtù sociale fondamentale. Mi sembra che la solidarietà tenda ad assumere il ruolo tradizionalmente proprio della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, ad assurgere quasi al ruolo di virtù sociale fondamentale. Solo se le trame complesse e articolate delle strutture economiche, giuridiche, sociali e politiche di un Paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili – e quindi doverosamente praticabili – la solidarietà come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dell’attenzione all’altro in ogni suo apparire, dispiegherà al massimo grado le sue potenzialità. Un nuovo ethos. Non ci può essere, a mio avviso, una vera cultura della solidarietà se non si opera per un nuovo ethos che prenda sommamente sul serio, anche nella determinazione delle teorie economiche, i problemi della povertà, della fame, del sottosviluppo. Un ethos modellato sulla giustizia, sulla comprensione dei bisogni autentici degli altri, un ethos che non cerca il potere dell’uomo sull’uomo come tale e l’adesione alla logica del più forte. Un ethos che si muove verso una profonda comunione planetaria, in cui l’economia non è annullata o svuotata, bensì ricondotta a un ordine di fini che non si esaurisce in essa, in quanto il fine ultimo dell’economia è la persona umana nella sua crescita integrale e solidale a livello planetario.

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