venerdì 31 agosto 2012

Carlo Maria Martini: "Io, Welby e la morte'


da: Il Sole 24 ore – 21 gennaio 2007

Io, Welby e la morte
di Carlo Maria Martini

Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però, con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico", mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave. Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.
La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia ... all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278) assumendo così ilimiti propri della condizione umana mortale.
Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente — , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. Un'impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace direalizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questionedi come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.

Carlo Maria Martini: “La mia idea di giustizia”


da: Famiglia Cristiana

Per il cardinale Carlo Maria Martini i problemi della povertà, della fame, del sottosviluppo sono centrali per una vera cultura della solidarietà. Pubblichiamo un estratto del suo libro "Sulla giustizia", edito nel 1999 da Mondadori. Il volume raccoglie «semplici riflessioni» del cardinale sull’argomento.

L'amministrazione delal giustizia penale è una delle strutture essenziali della convivenza sociale. La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà, dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all’umano. Ogni persona è parte vitale e solidale della comunità civile; distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte, sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono.

Una domanda pungente. Le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se sono tese al ricupero di chi ha sbagliato, se operano in funzione dell’affermazione e sviluppo della sua dignità. Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? Per quanto riguarda le istituzioni, ci vogliono certamente leggi e ordinamenti che difendono e assicurano il rispetto della vita e dell’incolumità di tutti i cittadini. La sicurezza va garantita. Se tuttavia ci confrontiamo con l’esperienza di chi sta in carcere e di chi sta accanto ai carcerati, scopriamo con amarezza e delusione che la realtà carceraria in Italia (e anche altrove!) spesso non contribuisce al ricupero della persona.

Il carcere come emergenza. La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana, per fermare colui che, afferrato da un istinto egoistico e distruttivo, ha perso il controllo di sé stesso, calpesta i valori sacri della vita e delle persone, e il senso della convivenza sociale. Noi non siamo una società che vive il Vangelo. Se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del «fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te», non ci sarebbero né giudici, né condanne. Siamo molto lontani dalla comunità perfetta a cui punta il Vangelo, e quindi abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento. Ma il cristiano – se vuole essere coerente con il messaggio di Dio padre misericordioso che non gode per la morte del peccatore, vuole anzi che si converta e viva e per lui fa festa – non potrà mai giustificare il carcere se non come momento di arresto di una grande violenza. (...)

Pena di morte.
Sono ancora molti gli Stati in cui si applica la pena di morte e, purtroppo, si assiste talora a prassi che sconcertano: dalle condanne per reati politici o di opinione a quelle che sanciscono un processo difettoso e iniquo e che si aggiungono a forme di maltrattamento e di tortura; dalle esecuzioni di massa alle esecuzioni le cui vittime sono adolescenti o anziani. La considerazione di questi fatti sconcertanti induce a intraprendere con forza campagne per l’abolizione della pena capitale. Oggi sembra assai difficile che si possano realizzare le circostanze che, nel passato, avevano indotto molti Stati, anche cristiani, ad applicarla, ritenendo che in certi casi rappresentasse l’unico ed estremo mezzo di difesa della comunità e del bene comune. Nell’attuale momento storico, considerando la più diffusa e approfondita consapevolezza del valore della persona e della sua dignità, come pure i progressi realizzati nella conoscenza delle motivazioni profonde e complesse dell’agire umano, siamo persuasi che in ogni società civilizzata l’ordine può essere salvato, la giustizia assicurata, il delitto intimorito con altre pene e provvedimenti senza ricorrere alla soppressione del reo. (...)

Pentimento e pentiti. Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonata da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, nobilissimo, che dice l’anelito a una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore. (...)

La questione ecologica. Un primo livello è evocato dalla questione ecologica e ambientale. L’esaurimento delle risorse energetiche e delle materie prime da un lato e, dall’altro, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, hanno posto gravi interrogativi circa la ragionevolezza dell’assetto socio-economico che comporta simili conseguenze. Oggetto di preoccupazione, per definire la qualità della vita, non può essere tuttavia solo il degrado ambientale. Il mangiare e il bere, il nascere e il morire, non sono per l’uomo attività e fenomeni esclusivamente biologico- materiali. Essi sono anche espressione dello spirito, modalità di quel linguaggio ordinario che articola il senso della vita e da cui non si può prescindere per determinare i contenuti di una vita veramente buona e giusta, contenuti essenzialmente etici, spirituali. Qualora dunque dovesse prevalere una visione biologica materialistica – sia nella versione tecnocratica sia in quella ecologico-naturalista – la coscienza morale sarebbe esposta a un grave rischio. La questione della disoccupazione. Un secondo livello viene evocato dalla questione della disoccupazione, un tema che oggi sostanzia la qualità della vita e che coinvolge tanto direttamente l’economia. È difficile negare che i meccanismi di mercato, lasciati a sé stessi, operino e possano operare nel senso di una soluzione iniqua, almeno a breve termine, del problema, concentrando su alcuni settori e gruppi di lavoratori il costo – in termini di disoccupazione – delle pur necessarie ristrutturazioni nell’attività produttiva. Non ritengo che l’attuazione di correttivi, per una più equa distribuzione anche del lavoro e del tempo libero, sia da attendersi semplicemente da esigenze di efficienza interna al sistema economico, bensì soprattutto dalla propensione delle categorie più fortunate, a livello civile e politico, a rinunciare in parte ai vantaggi di cui possono godere in favore di categorie gravemente colpite dalla mancanza di lavoro. Emerge qui la tanto controversa parola: solidarietà.

La solidarietà. La solidarietà, spesso fraintesa, è semplicemente la traduzione pratica del senso di appartenenza a una unica comunità civile, quando la comunità sia considerata come luogo in cui, proprio istituendo rapporti di reciproco riconoscimento, si plasma e si definisce l’identità personale di ognuno. È così conferita determinatezza ai bisogni e desideri che schiudono il senso della vita buona e giusta. L’attenuarsi della solidarietà e il crescente individualismo non sono da imputarsi esclusivamente alla cattiva volontà personale. È piuttosto la disarticolazione attuale della società in sistemi e sottosistemi tendenzialmente autonomi e autoreferenziali che induce il cittadino a ritirarsi nel privato, non riuscendo più a scorgere nel proprio ruolo sociale una plausibile ragione di impegno etico globale. A tale livello di profondità deve spingersi la diagnosi della carenza di una solidarietà, che affligge la coscienza collettiva e si manifesta pure nell’organizzazione dell’attività economica. Quale tipo di convivenza umana si sta profilando? Non c’è dubbio che occorre molto coraggio per proporsi la questione di che cosa sia la vita buona; perché di questo si tratta, ultimamente. E come la fatica di Sisifo, sembra un’impresa senza prospettiva di giungere a definitiva conclusione, tanto meno a breve termine.

Una virtù sociale fondamentale. Mi sembra che la solidarietà tenda ad assumere il ruolo tradizionalmente proprio della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, ad assurgere quasi al ruolo di virtù sociale fondamentale. Solo se le trame complesse e articolate delle strutture economiche, giuridiche, sociali e politiche di un Paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili – e quindi doverosamente praticabili – la solidarietà come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dell’attenzione all’altro in ogni suo apparire, dispiegherà al massimo grado le sue potenzialità. Un nuovo ethos. Non ci può essere, a mio avviso, una vera cultura della solidarietà se non si opera per un nuovo ethos che prenda sommamente sul serio, anche nella determinazione delle teorie economiche, i problemi della povertà, della fame, del sottosviluppo. Un ethos modellato sulla giustizia, sulla comprensione dei bisogni autentici degli altri, un ethos che non cerca il potere dell’uomo sull’uomo come tale e l’adesione alla logica del più forte. Un ethos che si muove verso una profonda comunione planetaria, in cui l’economia non è annullata o svuotata, bensì ricondotta a un ordine di fini che non si esaurisce in essa, in quanto il fine ultimo dell’economia è la persona umana nella sua crescita integrale e solidale a livello planetario.

La morte di Carlo Maria Martini: un lutto che oltrepassa Milano



da: Avvenire

È morto il cardinale Martini
Un lutto che oltrepassa Milano

Milano con le lacrime agli occhi: è morto nel pomeriggio il cardinale Carlo Maria Martini. Le sue condizioni si erano aggravate ieri sera e la diocesi aveva raccomandato «a tutti i fedeli e a quanti l'hanno caro speciali preghiere, espressione di affetto e di vicinanza in questo delicato momento».

Torinese, classe 1927, era entrato nella Compagnia di Gesù a 17 anni, e ordinato sacerdote il 13 luglio del 1952. Cinquant'anni dopo, Giovanni Paolo II gli rivolgerà queste parole: «Tutti sanno con quanto zelo pastorale hai voluto comunicare la Parola di Dio attraverso la catechesi scritta e orale, e anche grazie a convegni di alto livello scientifico. E grazie alla predicazione degli esercizi spirituali hai recato grande giovamento sia ai credenti sia ai non credenti». E ancora: «Tu non solo hai tentato di condurre alla dottrina  del Vangelo i fedeli cattolici, ma anche il mondo laico e chi si dimostrava  indifferente». Era stato proprio Karol Wojtyla - era il 1979 - a scegliere come arcivescovo di Milano il rettore della Ponteficia Università Gregoriana. Sotto lo sguardo protettore della Madonnina, Martini (nel frattempo - 1983 - creato cardinale) è rimasto fino al 2002, per poi riprendere per alcuni anni gli studi biblici a Gerusalemme («simbolo stesso dell'umanità», la chiamava), fino a quando i problemi di salute non lo avevano costretto a ritornare in Lombardia.

L'amore per la ricerca di Dio, quello era già scoppiato in giovanissima età. Lo ricordava lo stesso cardinale Carlo Maria Martini, in un'intervista ad Avvenire: «A 11 o 12 anni - raccontava - desiderando possedere un'edizione del Nuovo Testamento in italiano, mi misi a cercarla nelle librerie di Torino. Fu abbastanza difficile trovarla. Allora esistevano pochissimi sussidi e anche poche traduzioni. C'erano versioni dei Vangeli, ma era raro trovare una versione dell'intero Nuovo Testamento. Finalmente la trovai, in due volumi. Ancora la ricordo: era come se avessi scoperto un tesoro, ed era infatti un vero tesoro». Anche Martini, per la comunità cristiana - milanese e non - era un tesoro. E questa, oggi, si sente più povera.

Il cardinale Carlo Maria Martini è in fase terminale


Il neurologo Gianni Pezzoli, che da anni cura il cardinale Carlo Maria Martini, ha comunicato che l’arcivescovo emerito di Milano “E’ purtroppo entrato in fase terminale. Dopo un'ultima crisi, cominciata a metà agosto, non è più stato in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. Ma è rimasto lucido fino all'ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico”.


Per quanto questa notizia non sia inaspettata, leggere queste parole mi provoca una profonda tristezza.

Ho avuto la fortuna di averlo per anni come arcivescovo di Milano. Ho letto i suoi libri.
E’ tra le poche persone -  cattoliche e laiche – che ho apprezzato e seguito. Dotato di un’elasticità mentale pressochè assente nella gerarchia cattolica, ha la rata dote di saper trasmettere il Vangelo di Cristo.

Noemi, nuovo singolo dal 24 agosto 2012: 'Se non è amore'

Il 24 agosto è uscito il nuovo singolo di Noemi ‘Se non è amore’ scritto da Fabizio Moro, già autore di “Sono solo parole”. 
Il nuovo brano: funzionale all’ascolto immediato, da “colonna sonora”, ma non idiota tormentone, fa parte del doppio cd live prossimamente in arrivo.
Doppio album che conterrà anche alcune delle cover che Noemi propone nei suoi tour: “La cura” di Franco Battiato, “Valerie” di Amy Winehouse. “Damn your eyes” di Etta James e “Quello che” dei 99 Posse.

Noemi: ‘Shampoo’ di Giorgio Gaber

Cos'è l'ILVA di Taranto

Tratto da: http://www.ilpost.it/ - ‘Che cos’è l’ILVA di Taranto’ di Davide Maria De Luca

Breve storia della più grande acciaieria d'Europa, contestata, parzialmente sotto sequestro e molto importante per l'economia italiana.



L’ILVA di Taranto, l’impianto che si trova parzialmente sotto sequestro per ordine della magistratura, è la più grande acciaieria d’Europa. Fondato nel 1961, è un impianto siderurgico a ciclo integrale, dove cioè avvengono tutti i passaggi che dal minerale di ferro portano all’acciaio. Il fulcro della produzione sono i cinque altoforni, dove viene prodotta la ghisa. Ognuno è alto più di 40 metri e ha un diametro tra 10 e i 15 metri: al momento quattro altoforni su cinque sono attivi.
L’ILVA di Taranto appartiene al Gruppo Riva, controllato dall’omonima famiglia. Il Gruppo Riva è il decimo produttore mondiale di acciaio. Il presidente del gruppo è Emilio Riva, finito agli arresti domiciliari insieme al figlio Nicola. I Riva acquistarono dallo stato l’impianto di Taranto nel 1995. In quegli anni lo stato vendette tutta l’industria pubblica dell’acciaio, che dagli anni Ottanta si trovava in grave crisi. Da anni comitati cittadini e ambientalisti contestano l’impianto dell’ILVA, accusandolo di inquinare l’aria e provocare malattie. Nell’ordinanza con cui ha disposto il sequestro e gli arresti, il gip ha scritto che l’impianto è stato causa e continua a esserlo di «malattia e morte» e perché «chi gestiva e gestisce l’ILVA ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Allo stesso tempo i lavoratori e i sindacati difendono l’impianto e l’azienda e hanno annunciato scioperi.
Nel 2011 l’Italia era il 11esimo paese al mondo per la produzione di acciaio, con 28 milioni di tonnellate prodotte ogni anno. L’ILVA di Taranto produce da sola circa 9 milioni di tonnellate l’anno e il Gruppo Riva nel suo complesso ne produce più di 17. L’Italia è un paese esportatore di acciaio, ma la produzione italiana è importante anche per il mercato interno. Uno dei settori più importanti per l’export italiano è la meccanica, cioè le macchine per uso industriale. Per mantenere competitivo questo settore è molto importante potersi rifornire in Italia di acciaio a buon prezzo (che altrimenti andrebbe importato dalla Germania).
Emanuele Morandi, presidente di Siderweb, ha sostenuto a Radio24 che l’arresto della produzione all’ILVA di Taranto potrebbe costare lo 0,15 per cento del PIL, considerando solo l’attività dell’impianto, e lo 0,165 per cento considerando anche l’impatto sul resto dell’industria. In questo caso, per la prima volta dagli anni Cinquanta, l’Italia tornerebbe ad essere un paese importatore di acciaio.

CL, Meeting: Famiglia Cristiana, ‘Monti, l’ottimismo e gli applausi’


da: http://www.famigliacristiana.it/  - 21 agosto 2012

Monti, l'ottimismo e gli applausi


«Per molti aspetti vedo avvicinarsi l’uscita dalla crisi». Così il presidente del Consiglio Mario Monti ha aperto il Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Un discorso carico di speranza, ricco di citazioni: da De Gasperi a Schuman. Le parole di Monti sono servite a dar fiducia a un Paese con il freno a mano tirato. Anche se il cammino di risanamento è lungo. Un discorso di speranza, con forti contrasti con la realtà. Il premier, sulla scia di De Gasperi («il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni»), ha sostenuto che il Governo «sta cercando di orientare le politiche nell’interesse dei giovani». 

Ma quali provvedimenti stanno creando lavoro e contrastando la disoccupazione giovanile? In fondo, ammette lo stesso presidente: «Mai abbiamo pensato che le riforme fatte con intensità in questi mesi, lavoro, pensioni, spending review, liberalizzazioni, facessero partire immediatamente la crescita».«Quello che, invece, speravamo», ha aggiunto,«è che l’insieme di queste riforme desse luogo a una riduzione dei tassi di interesse più rapidamente di come sta avvenendo. Non abbiamo mai pensato che, nel giro di qualche mese, le riforme potessero far salire crescita e occupazione. Ci vuole più tempo». Ma quanto tempo? 

Il Paese è stremato. Dieci milioni di famiglie tirano la cinghia. La disoccupazione è al 10,8 per cento. Solo un italiano su tre ha un posto regolare a tempo indeterminato (meno che in tutti i Paesi europei). Secondo Eurostat, gli occupati in Italia sono 450 mila in meno che nel 2007. Aumentano i cassaintegrati.

Stato-Mafia, intercettazioni Napolitano: Marco Travaglio ‘..quello che Ezio Mauro non dice’


da: Il Fatto Quotidiano - 25 agosto 2012

La Repubblica e Il Fatto, Zagrebelsky e Scalfari: quello che Ezio Mauro non dice
di Marco Travaglio

Mica facile salvare capra e cavoli, anzi Zagre e Scalfari. Ieri Ezio Mauro ha provato, con abilità dialettica e qualche maligna allusione al Fatto, a mettere d’accordo gl’illustri litiganti di Repubblica: il fondatore Eugenio Scalfari e il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Ma, a nostro modesto avviso, ci è riuscito solo in parte. Perché ha dovuto sacrificare un bel po’ di quell’“obbligo alla verità” e al “giornalismo” a cui si è richiamato.
1. Duello a uno
“Il caso della trattativa Stato-mafia e del contrasto tra la Procura di Palermo e il Quirinale… La manovra contro il Quirinale…”. Non c’è mai stato alcun “contrasto” tra Procura e Quirinale, né tantomeno alcuna “manovra” contro il Colle. Anzi, tutto il contrario. La Procura ha chiesto e ottenuto dal Gip di intercettare Nicola Mancino, applicando la legge e scoprendo poi che Mancino parlava col consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, e con lo stesso Napolitano. E’ stato Napolitano ad attaccare la Procura di Palermo, accusandola di aver leso sue presunte prerogative costituzionali e trascinandola dinanzi alla Consulta.
2. Nessun attacco
“L’indagine è meritoria, come dicevo due mesi fa. Ma oggi – aggiungo – chi la ostacola? La Procura l’ha conclusa con le richieste di rinvio a giudizio, in piena libertà, com’è giusto, ora tocca al Gip decidere sugli indagati eccellenti. E allora?

Stato-Mafia, intercettazioni Napolitano: Marco Travaglio ‘Eugenio, che dici?’


da: Il Fatto Quotidiano – 21 agosto 2012

Eugenio, che dici?
di Marco Travaglio

Domenica, su Repubblica, Eugenio Scalfari ha risposto a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale nonché illustre collaboratore del suo giornale, che venerdì aveva fatto a pezzi il conflitto di attribuzione di Napolitano contro la Procura di Palermo e gli argomenti dei supporter del Quirinale, Scalfari in primis. Ma, oltre a contrapporre i propri argomenti a quelli di Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica lo ha anche attaccato personalmente, dipingendolo come uno sprovveduto, ignorante, disinformato e scorretto (“Zagrebelsky mostra di non rendersi conto…”, ha commesso “una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave”, “non dovrei esser io a ricordare a un ex presidente della Corte…”, “forse Zagrebelsky non era al corrente di questo interessante dettaglio”, per non parlare della “delusione” provocata in lui dall’adesione del giurista all’appello del Fatto per i magistrati siciliani). E, già che c’era, ha offeso la logica, la verità storica, la professionalità di tutti i magistrati antimafia degli ultimi vent’anni e persino la memoria di Giovanni Falcone. 

1. Cui prodest? “L’articolo di Zagrebelsky… rafforza e conforta col prestigio giudiziario del suo autore la campagna in corso da tempo contro il Quirinale… prima ancora che le inchieste palermitane fornissero un’ulteriore occasione e che ha poi acquistato una virulenza che va molto al di là del sacrosanto diritto di informazione e di critica… Invito perciò Zagrebelsky a porsi il problema dell’uso che verrà fatto da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni”. Scalfari dipinge una scena di pura fantapolitica: un Napolitano solo e inerme dinanzi all’assalto

Trattativa Stato-Mafia, intercettazioni Napolitano: lo scontro ‘la Repubblica’ e ‘Il Fatto Quotidiano


Ho seguito lo scontro che si è scatenato dal 17 agosto tra ‘la Repubblica’ e ‘Il Fatto Quotidiano’.
La diatriba si è aperta con la diffusione delle intercettazioni al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo su una presunta trattativa Stato-mafia nel 1992.
Si tratta – è necessario precisarlo – d’intercettazioni indirette, perché Napolitano non era il controllato ma l’interlocutore del soggetto intercettato: Nicola Mancino (ex presidente del Senato, ex ministro dell’Interno, ex vicepresidente del Csm). 
La questione in discussione era - ed è, perché il Capo dello Stato ha sollevato un conflitto d’attribuzione presso la Corte Costituzionale - se il presidente della Repubblica può essere intercettato direttamente o indirettamente, cioè assoggettato alla medesima normativa che si applica ai comuni cittadini italiani. Unico riferimento normativo che riguarda la condotta del Presidente della Repubblica è quello contemplato all’art.90 della Costituzione Italiana: “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”.
L’inchiesta della procura di Palermo e le intercettazioni disposte non ricadono nel suddetto articolo costituzionale.

Nel merito dell’inchiesta e delle intercettazioni che riguardano il Capo dello Stato, si sono espressi giuristi e giornalisti e, dalle colonne di Repubblica, si sono manifestate le diversità di vedute tra l’ex giudice della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari. Dalle colonne del Fatto, ha detto la sua Marco Travaglio.
Lo scontro tra Repubblica e il Fatto è diventato infuocato nel giro di pochi giorni. Non certo per la coincidenza con il clima ostaggio dell’anticiclone Lucifero.

Dopo aver letto gli articoli che trovate cliccando i link che riporto in fondo al post, ho deciso di dare spazio nel blog (post successivi) solo a quelli di Marco Travaglio.
Perché il vice direttore del Fatto, diversamente da Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari – che ritengo abbia perso lucidità - ha puntigliosamente letto e commentato affermazione su affermazione contenuta negli articoli del fondatore e del direttore di Repubblica.
Né Mauro, né Scalfari hanno ribattuto agli articoli di Travaglio. Perché lo ritengono inferiore? Perché lo disprezzano considerandolo uno di “destra che ha invaso il campo della sinistra”? O perché, non sono in grado di opporre argomentazioni a quelle di Travaglio?

Non mi metterò a commentare i singoli articoli ma solo a qualche considerazione.

Buongiorno..ci si ripiglia


Mai come da due mesi a questa parte ho sentito persone parlare della perdita del lavoro, del fatto che a settembre fabbriche, uffici, negozi, non avrebbero riaperto. A questi si aggiungono coloro che un posto ce l’hanno, ma non vedono uno stipendio da gennaio. E’ ovvio che di fronte a questo, come di fronte alla salute, tutto il resto passi in secondo piano.

Cresce sempre più il distacco tra il paese reale che definirei composto di viventi che si vogliono uccidere socialmente e dal paese irreale dei morti viventi nel quale colloco la classe politica italiana. Le eccezioni, ci sono ma, come si dice: confermano la regola.

Ritorno presente nel blog con occhio a quanto succede ma anche con un’attenzione ad argomenti che rispetto ai primi citati non sono prioritari, ma non vanno, a mio parere, ignorati. La “sola” che quotidiano ci danno non è esclusivamente nella pecunia. E’ anche nei principi, nei valori, nei diritti.
Ma il tempo che ho a disposizione è sempre meno, quindi, non riuscirò a proporre tutto ciò che vorrei. E, a dire il vero: la voglia di occuparmi di certi temi, di leggere alcune notizie, si sta sempre più riducendo.
Per ora, provo a ripartire, con uno sguardo sempre al mondo reale ma anche con quella diatriba che si è scatenata tra due quotidiani. Il perché lo leggerete. Se vorrete, s’intende.
Come sempre, ci “alleggeriremo” con musica, cinema e tv…Ma, qualsiasi sia l’argomento, sarà trattato seriamente. Ergo: senza prendersi sul serio.

venerdì 3 agosto 2012

Donne in sport: Olimpiadi 2012, oro per il fioretto femminile


Solo queste donne potevano farmi “riapparire” nel blog…

Gran squadra….
Personalmente: Elisa Di Francisca la numero uno. Una “felina” di gran classe

nuovamente: buone ferie e…buon rientro..