Borsellino,
‘tra i più grandi depistaggi della storia’. Dietro falsi pentiti (e agenda
rossa) gli apparati che lo temevano
Le
motivazioni della sentenza Borsellino quater che 14 mesi fa chiuse l’ultimo
processo sulla strage di via d’Amelio attestano nero su bianco "un
proposito criminoso degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i
loro poteri". L'ex questore La Barbera accusato anche della sparizione del
diario di Borsellino. La procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio
per tre poliziotti
“È uno dei più gravi depistaggi della
storia giudiziaria italiana”. I giudici della corte d’assise di Caltanissetta ieri
hanno depositato le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater
sulla strage che il 19 luglio 1992 uccise il procuratore aggiunto e i
poliziotti della scorta: 1.856 pagine, 12 capitoli. La corte che 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla
strage di via d’Amelio non fa sconti. L’atto è una pietra
essenziale del lungo e faticoso lavoro di ricostruzione della verità, nella
quale si fissa nero su bianco la stagione dei misteri e dei depistaggi senza
fine che puntano al cuore dello Stato. Di fatto i giudici imputano il
depistaggio agli investigatori dell’epoca e parlano espressamente di “disegno
criminoso”. Il movente dunque sarebbe proprio da cercare nel quadro di una
convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che
percepivano come un pericolo l’opera del magistrato.
“È lecito interrogarsi sulle finalità
realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si
resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad
alcuni elementi”, scrive la corte quando parla di “soggetti inseriti nei suoi
apparati” che indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni. Gli
uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo
Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo
Arnaldo La Barbera: dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece
costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti.
Che sarebbe stata una sentenza importante
lo si era compreso dalla complessità del dispositivo che, il 20 aprile del
2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a
10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori
di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi
esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo
Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di rocambolesche
ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici dichiararono la
prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a
commettere il reato da altri.
Ed è a questi “altri” che la corte si
riferisce nelle motivazioni della sentenza. A quegli investigatori mossi da “un
proposito criminoso”, a chi “esercitò in modo distorto i poteri”. La corte
d’assise di Caltanissetta, dunque, usa parole durissime verso chi condusse le
indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato
da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a
indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa
versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere
“una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e
nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi
dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la
esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la
vera fonte”.
La Barbera è morto, l’inchiesta sulla
scomparsa dell’agenda rossa è stata archiviata, ma a Caltanissetta, forse a
maggior ragione dopo questa sentenza, si continuerà a indagare. Non si sono
accontentati delle verità ormai passate in giudicato i pm della Procura Stefano
Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare
Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. E
una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda i poliziotti che facevano
parte del pool di La Barbera.
Ma quali erano le finalità di uno dei più
clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici.
La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di
fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla
trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al
loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti
alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della
responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza
di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un
pericolo l’opera del magistrato”.
I magistrati dedicano, poi, parte della
motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il
magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera,
secondo la corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false
collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella
sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata
da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in
una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”.
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