giovedì 23 febbraio 2023

Enrico Berlinguer: La Questione Morale

 


da: https://www.enricoberlinguer.it/

Dove va il PCI? Intervista ad Enrico Berlinguer, di Eugenio Scalfari, La Repubblica, 28 luglio 1981

Questa è certamente l’intervista più famosa sulla questione morale rilasciata da Enrico Berlinguer. La più citata, almeno, anche nei dibattiti odierni. Quella che poi porterà persino alcuni pezzi importanti del Pci a fargli una vera e propria guerra all’interno del partito, con plateali dissensi persino dalle colonne de l’Unità. Rispetto alle precedenti esternazioni sul tema, Berlinguer attacca anche il Psi di Craxi, colpevole di essersi uniformato ai metodi di governo della Democrazia Cristiana. In realtà questa intervista, pubblicata interamente per la prima volta su enricoberlinguer.it il 10 giugno 2009, non poneva l’accento solo sulla Questione Morale, ma su vari aspetti della politica del Pci, come dimostra il titolo dato da Scalfari. La prima intervista sulla Questione Morale è quella rilasciata ad Alfredo Reichlin, su l’Unità, il 7 dicembre 1980.

«I partiti non fanno più politica», mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della Tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogans politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall’Alpi al Lilibeo…

«No, no, non è così.», dice lui scuotendo la testa sconsolato. «Politica si faceva nel ‘45, nel ‘48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee, certo, scontri di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, ne era ricambiato.»

Oggi non è più così?

«Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia.»

La passione è finita? La stima reciproca è caduta?

«Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…»

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

«È quello che io penso.»

Per quale motivo?

«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, “il Corriere della Sera”, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il “Corriere” faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.»

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

«E secondo lei non corrisponde alla situazione?»

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all’ipotesi di vedere un partito comunista insediato al governo e ai vertici del potere. Che cosa è dunque che vi rende così estranei o temibili agli occhi della maggioranza degli italiani?

«La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti del voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo assai più lento, proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima.»

C’è dunque una sorta di schizofrenia nell’elettore.

«Se vuole la chiami così. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato “NO”: ma, poche settimane dopo, il 42 per cento ha votato Dc. Del resto, prendiamo il caso della legge sull’aborto: in quell’occasione, a parte le dichiarazioni ufficiali dei vari partiti, chi si è veramente impegnato nella battaglia e chi ha più lavorato per il “NO” sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti. Dall’altra parte della barricata, il Movimento per la vita e certe parti della gerarchia ecclesiastica. Gli altri partiti hanno dato, sì, le loro indicazioni di voto, ma durante la campagna referendaria non li abbiamo neppure visti, a cominciare dalla Dc. E la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere: seggi in comune, seggi in parlamento, governo centrale e governi locali, ministeri, sotto-segretariati, assessorati, banche, enti. se no, non si muovono. Quand’anche lo volessero, così come i partiti sono diventati oggi, non ne avrebbero più la capacità.»

Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei le descrive.

«In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.»

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?

«Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno degenerato, quale più quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?»

Mi pare che incuta paura a chi ha degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l’occasione di provare la vostra onestà politica, perché al potere non ci siete mai arrivati. Chi ci dice che, in condizioni analoghe a quelle degli altri, non vi comportereste allo stesso modo?

«Lei vuol dirmi che l’occasione fa l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito a riflettere: a noi hanno fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d’intransigenza e di coerenza morale e politica. Ai tempi della maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione fa l’uomo ladro, debbo dirle che le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se avessimo voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto farlo; ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo punto ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui, e concorrere anche noi a far danno al Paese.»

Veniamo alla seconda diversità.

«Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.»

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

«Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo noi»

Non voi soltanto.

«È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?»

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

«Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati della società, a cominciare dalle donne, dai giovani, dagli anziani. Per risolvere tali problemi non bastano più il riformismo e l’assistenzialismo: ci vuole un profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del sistema. Questa è la linea oggettiva di tendenza e questa è la nostra politica, il nostro impegno. Del resto, la socialdemocrazia svedese si muove anch’essa su questa linea: e quasi metà della socialdemocrazia tedesca (soprattutto le donne e i giovani) è anch’essa ormai dello stesso avviso. Mitterrand ha vinto su un programma per certi aspetti analogo.»

Vede che non ha ragione di alterarsi se dico che tra voi e un serio partito socialista non ci sono grandi differenze.

«Non mi altero affatto. basta intendersi sull’aggettivo serio, che per noi significa comprendere e approfondire le ragioni storiche, ideali e politiche per le quali siamo giunti a elaborare e a perseguire la strategia dell’eurocomunismo (o terza via, come la chiamano anche i socialisti francesi), che è il terreno sul quale può aversi un avvicinamento e una collaborazione tra le posizioni dei socialisti e dei comunisti.»

Dunque, siete un partito socialista serio…

«…nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo…»

Però, alle elezioni del 21 giugno, i socialisti di Craxi sono andati parecchio meglio di voi. Come se lo spiega?

«I socialisti hanno certamente colto alcune esigenze nuove che affiorano nel paese. In modi non sempre chiari, ma comunque percettibili, stanno mandando segnali a strati di borghesia e anche di alta borghesia. La crisi profonda che ha investito la Dc non è senza riflessi sull’incremento del Psi, nonché dei socialdemocratici, dei liberali, dei repubblicani. C’è stanchezza verso la Dc e il desiderio diffuso di cambiamento. Il 21 giugno, il grosso dei voti che sono defluiti dalla Dc si è trasferito nell’area laica e socialista. Per ora è stato così.»

Lo giudica un fenomeno positivo?

«Complessivamente, sì, dato che si accompagna ad un calo dei fascisti del Msi e a una conferma della nostra ripresa rispetto al ’79.»

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

«No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.»

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?

«Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni – che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale – senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.»

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.»

Le cause politiche che hanno provocato questo sfascio morale: me ne dica una.

«Le dico quella che, secondo me, è la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi.»

Non le sembra eccessivo Signor Segretario? Tutto nasce dal fatto che non siete stati ammessi al governo del Paese?

«Vorrei essere capito bene. Non dico che tutto nasca dal fatto che noi non siamo stati ammessi nel governo, quasi che, col nostro ingresso, di colpo si entrerebbe nell’Età dell’Oro (del resto noi non abbiamo mai chiesto l’elemosina d’esser “ammessi”). Dico che col nostro ingresso si pone fine ad una stortura e una amputazione della nostra democrazia, della vita dello Stato; dico che verrebbe a cessare il fatto che per trentacinque anni un terzo degli italiani è stato discriminato per ragioni politiche, che non è mai stato rappresentato nel governo, che il sistema politico è stato bloccato, che non c’ è stato alcun ricambio della classe dirigente, alcuna alternativa di metodi e di programmi. Il gioco è stato artificialmente ristretto al 60 per cento degli elettori; ma è chiaro che, con un gioco limitato al 60 per cento della rappresentanza parlamentare, i socialisti si vengono a trovare in una posizione chiave.»

Questo le dispiace?

«Mi sembra un gioco truccato, oltre al fatto che bisogna vedere come il Psi sta usando questa posizione chiave di cui gode anche grazie alla nostra esclusione. Per esempio, potrebbe usarla proprio per rimuovere la pregiudiziale contro di noi. A quel punto le possibilità di ricambio, cioè di una reale alternativa –e, nel suo ambito, anche di un’alternanza- sarebbero possibili, sarebbero a vantaggio generale e, a me sembra, a vantaggio dello stesso Psi, in quanto partito che ha anch’esso una sua insostituibile nel rinnovamento del Paese. Oppure i socialisti possono seguitare a usare la loro posizione per accrescere il potere del loro partito nella spartizione e nella lottizzazione dello Stato. E allora la situazione italiana non può che degradare sempre di più.»

Dica la verità, signor segretario: lei ritiene che i socialisti stiano seguendo piuttosto questa seconda via, non la prima.

«Ebbene, non sono io che la penso così, sono i fatti a dircelo. Nel ’77 i socialisti si impegnarono a rimuovere la pregiudiziale democristiana contro di noi. Nel ’78 ripeterono l’impegno, ma al primo veto della Dc l’accettarono come un dato immutabile. Badi bene: non dico che dovevano farlo per i nostri begli occhi. Ma se il problema di fondo della democrazia italiana è, come anche essi riconoscono, la mancanza di un ricambio di classe dirigente, capace di avviare un rinnovamento reale e profondo, dovevano farlo per se stessi e per il Paese. Nell’80, poi, hanno addirittura capovolto la loro linea e, da una timida richiesta di far cadere le pregiudiziali anticomuniste, sono passati all’alleanza con la destra democristiana, quella del “preambolo” cioè della più ottusa discriminazione contro di noi e della divisione del movimento operaio. I socialisti pensano di crescere in fretta al riparo di una linea come quella del “preambolo”. Io non credo che sarà così.

Ma poi quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.»

Craxi sostiene che il problema, prima ancora del ricambio della classe dirigente e di governo, è quello di un mutamento dei rapporti di forza a sinistra, tra socialisti e comunisti. Craxi dice: datemi forza, più forza; fate arrivare il Psi al 18, al 20 per cento. Allora, insieme ai socialdemocratici, l’area socialista e quella comunista saranno più o meno equivalenti, e allora sarà possibile anche allearsi con il Pci, perché allora saremmo noi socialisti a condurre il gioco e a garantirne le regole. Craxi si richiama all’esempio di Mitterrand, che ha vinto perché è diventato più forte dei comunisti. Credo sia questo il suo obiettivo. A quel punto sarà pronto ad allearsi con voi, ma non prima.

«Sì, lo so che nel partito socialista c’è chi pensa in questo modo. ma, poiché è stato tirato in ballo Mitterrand, voglio farle osservare che Mitterrand entrò nella Sfio, il vecchio partito socialdemocratico francese, quando la Sfio era ridotta al 6 per cento di voti, mentre il partito comunista francese stava sopra al 20. Ebbene, Mitterrand trasformò la Sfio, spazzò via la vecchia burocrazia d’apparato, aprì ai club, al sindacato, ai cattolici; ma soprattutto, cercò subito una linea unitaria a sinistra col partito comunista francese, sebbene il Pcf fosse un partito – diciamolo – alquanto diverso dal nostro.

Mitterrand non ha aspettato d’essere più forte del Pcf per ricercarne l’alleanza. In queste ultime elezioni presidenziali, durante il dibattito televisivo con Giscard, Mitterrand disse: io non escluderò mai dal governo la classe operaia francese e un partito, come il Pcf, che ne rappresenta una parte. L’ha detto e l’ha anche fatto. E ha risposto agli americani con la dignità che conosciamo. Io dico che forse proprio per questo la forza socialista francese è cresciuta fino a diventare maggioritaria nella sinistra.»

La posizione di Mitterrand è stata anche una posizione obbligata. Obbligata dal sistema costituzionale ed elettorale francese.

«Ma no, non è affatto vero. C’è stato Rocard che ancora poco tempo fa proponeva una linea del tutto diversa: proponeva una specie di centro-sinistra, l’alleanza con una parte dei centristi giscardiani. Il partito socialista francese ha vinto sulla linea di Mitterrand, non su quella di Rocard.»

Però, signor segretario, Mitterrand, appena eletto, s’è affrettato a fare una dichiarazione di pieno atlantismo. In particolare, a proposito della questione degli euromissili, ha detto d’essere favorevole alla loro installazione. Lei non ha mai detto nulla di simile. Tra le caratteristiche del vostro esser “diversi” non ci sarà per caso anche la tendenza al neutralismo europeo, che invece i socialdemocratici europei respingono in blocco?

«Lei adesso sposta il confronto fra la politica dei socialisti francesi, dei socialisti italiani e la nostra su un altro tavolo, sulle questioni di politica internazionale. Ma la seguo volentieri. E le dirò, allora, che non mi persuadono le ultime dichiarazioni di Mitterrand, ma che noi comunisti italiani possiamo condividere la dichiarazione sugli euromissili che figura nel programma del nuovo governo francese e che è stata sottoscritta sia dal partito socialista che da quello comunista. Essa, in sostanza, non chiede che l’America cessi di costruire i suoi Pershing 2 e i Cruiser, cioè gli euromissili più moderni che vuole installare in Europa a partire dal 1983. Ma intanto si dia inizio immediato al negoziato per diminuire i missili in Europa, anzi, per toglierli completamente, e l’Urss cessi l’installazione sei suoi SS-20 fin dal momento in cui il negoziato ha inizio. E io aggiungo che bisogna far presto, perché se continuerà la gara a chi costruisce più missili, a chi li fabbrica più sofisticati e a chi ne mette di più, il pericolo di una guerra di sterminio in Europa diverrebbe incontrollabile.

Questa è la posizione che risulta dall’accordo tra i socialisti e i comunisti francesi, e analoga mi sembra la posizione del partito socialdemocratico tedesco; ed è la nostra posizione. Mi piacerebbe sapere se è anche la posizione del Governo italiano e dei compagni socialisti italiani. Del resto l’adesione dell’Italia al programma approvato dalla Nato nel dicembre 1979 (quando si decise sugli euromissili) era subordinata appunto alla ripresa immediata del negoziato. Quella decisione fu votata anche dai socialisti. Oggi la possibilità di un negoziato – e di un negoziato senza condizioni – è aperta. Che cosa dicono e che cosa fanno il Governo e i partiti che lo sostengono di fronte alla testarda repulsa di Reagan a dare inizio alle trattative con l’Urss?»

Onorevole Berlinguer, vorrei che adesso lei mi parlasse dello stato del suo partito. C’è una perdita di velocità? Una perdita di influenza?

«Direi che abbiamo girato la boa e siamo di nuovo in ripresa. Sinceramente: dopo le politiche del ’79 rischiammo una sconfitta che poteva metterci in ginocchio. Non tanto per la perdita di voti, che pure fu grave, quanto per un altro fatto: durante i governi di unità nazionale noi avevamo perso il rapporto diretto e continuo con le masse. Quei governi fecero anche cose pregevoli, che non rinneghiamo. Contennero l’inflazione, in politica estera presero qualche buona iniziativa, la lotta contro il terrorismo fu condotta con fermezza e dette anche risultati. Poi ci fu un’inversione di tendenza e gli accordi con noi furono violati. Ma sta di fatto che noi, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo, vedemmo indebolirsi il nostro rapporto con le masse nel corso dell’esperienza delle larghe maggioranze di solidarietà. Ce ne siamo resi conto in tempo. Posso assicurarle che un’esperienza del genere noi non la ripeteremo mai più.»

La rottura della maggioranza di unità nazionale provocò contrasti nel gruppo dirigente del partito?

«Ci furono diverse opinioni e il dibattito durò a lungo.»

Più tardi, pochi mesi fa, avete lanciato la linea dell’alternativa democratica. Posso ricordarle, signor segretario, che lei e il gruppo dirigente del suo partito eravate stati tenacemente contrari ad ogni discorso di alternativa, fino a quando non vi siete improvvisamente “convertiti”. Come mai?

«C’è stato forse un certo ritardo. Ma ricordo che già da tempo noi definivamo l’obiettivo dell’alternativa come alternativa democratica per distinguerlo da quello di una secca alternativa di sinistra, per la quale non esistono tuttora le condizioni. Posso aggiungerle che avevamo anche puntato sulla possibilità che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica, decidersi a porsi all’altezza dei problemi veri del paese. Non ho difficoltà a dire che su questo punto abbiamo sbagliato, o meglio che i mezzi usati non conseguivano lo scopo. Quando ce ne siamo resi conto, abbiamo messo la Dc con le spalle al muro, cioè abbiamo detto che una simile Dc era incapace di dirigere l’opera di risanamento e di rinnovamento necessaria, e che si facesse da parte. L’alternativa democratica è per noi uno strumento che può servire anche a rinnovare i partiti, compresa la Dc.»

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

«Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.»

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito…

«Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi“, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico.

Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.»

Che oggi, comunque, voi avete abbandonato addirittura in contrasto con una parte del movimento sindacalo e dello stesso Lama.

«Favole. Oggi noi respingiamo – in pieno accordo con il movimento sindacale – l’idea che l’inflazione sia dovuta unicamente al costo del lavoro e che il costo del lavoro sia principalmente dovuto alla scala mobile. È diventata una vera ossessione questa della scala mobile, dietro la quale la classe dirigente tradizionale nasconde la sua impotenza a dominare la crisi.»

L’inflazione avrà pure delle cause, non cade dal cielo….

«Certo che ce l’ha. E la prima viene dal dollaro. Un dollaro a 1200 lire, mentre appena pochi mesi fa non raggiungeva le 800 lire, quanti punti di inflazione introduce nel sistema? Di quanto aumenta il costo di tutte le importazioni e in particolare del petrolio? È un aumento di quasi il 50 per cento, un fenomeno di dimensioni enormi. Il vertice di Ottawa anche da questo punto di vista è stato un fallimento: ma direi che è stato un fallimento da tutti i punti di vista. E poi abbiamo in Italia una bilancia agricolo-alimentare terribilmente deficitaria, ma non si è fatto e non si fa quasi nulla per trasformare e sviluppare l’agricoltura. Infine, la spesa pubblica: un cancro che divora le risorse del paese in mille odi, con mille sprechi, a favore di mille clientele.»

Lei è favorevole ad un taglio radicale della spesa?

«Sì, ma credo sia indispensabile farlo in modo progressivo e selezionato

In quali settori andrebbe realizzato il taglio?

«In buona parte va fatto anche nelle spese previdenziale e per la sanità. Allo stato attuale è insensato che l’assistenza medica sia stata resa di colpo gratuita per tutti gli italiani (dopo di che si ritorna a un ticket applicato indiscriminatamente!). Sia gratuita, e con servizi efficienti per le fasce di reddito inferiori e medio inferiori. Gli altri contribuiscano in ragione del loro reddito. Ma devono anche essere combattute e liquidate le baronie e le clientele dei “pirati della salute”, che portano a sprechi enormi e alimentano insopportabili discriminazioni. Lo stesso criterio dovrebbe valere per tutta la politica previdenziale, per le tariffe, per la politica fiscale.»

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

«Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.»

Signor segretario, a che punto siamo con il terrorismo?

«A un bruttissimo punto. Vede dove ci hanno portato i cedimenti ai terroristi? Con l’obiettivo – che voglio sperare in buona fede – di salvare una vita, si è ceduto ai ricatti delle Br, e così è stata alimentata la catena di sequestri e di altri ricatti. Se quando fu rapito il giudice D’Urso le forze politiche avessero resistito, non avrebbero ceduto in nulla, le Br non sarebbero stato incoraggiate a proseguire. Ora siamo arrivati al punto che “L’Avanti!” pubblica integralmente il testo dei loro messaggi e che per ottenere il rilascio di un ostaggio viene addirittura pagato ai terroristi un riscatto con il quale le Br miglioreranno il loro armamento e la loro azione eversiva. Tutto questo è intollerabile. È intollerabile che fra i partiti che fanno parte del Governo della Repubblica vi siano atteggiamenti contraddittori e oscillanti su un problema così vitale.»

Si è detto da parte di autorevoli dirigenti sindacali che i terroristi si sono infiltrati persino nei quadri del sindacato.

«È molto probabile. Ma attenzione: ho l’impressione che queste denunce si pongano non tanto l’obiettivo di combattere il terrorismo, quanto di dividere il sindacato e di infangare il nostro partito. Voglio essere assolutamente chiaro su questo punto. Che infiltrazioni terroristiche ci siano in alcune fabbriche siamo stati noi i primi e, per lungo tempo, i soli a dirlo. Il nostro compagno Guido Rossa fu ucciso proprio perché aveva rivelato ciò. Da qui a stabilire un collegamento politico-ideologico tra la lotta di classe, la lotta sindacale e il terrorismo ci corre un abisso. Che cosa si vuole? Criminalizzare i sindacati e i sindacalisti che non cedono, che combattono e che organizzano le lotte? Questa è un’operazione infame e chi la tentasse va smascherato di fronte a tutto il movimento dei lavoratori.»

Onorevole Berlinguer, qual è il suo giudizio sul Congresso del partito comunista polacco?

«Assai positivo. I compagni polacchi hanno dimostrato di saper accogliere la spinta al rinnovamento che proviene da tutta la società polacca. In particolare dalla classe operaia e dalle sue rinnovate organizzazioni sindacali, e hanno condotto questa delicatissima operazione con coraggio e, insieme, con saggezza e prudenza. La situazione, tuttavia, rimane ancora molto difficile e complessa, e credo che lo sarà ancora a lungo.»

Per l’elezione del Comitato centrale del partito, il Congresso di Varsavia ha votato a scrutinio segreto e in piena libertà di scelta. Non c’erano liste prefabbricate…

«Vede? Non sempre i grandi fatti di rinnovamento democratico vengono dall’Occidente. In questo caso vengono dall’Est indicazioni importanti per lo sviluppo dei partiti operai di tutto il mondo»

Forse perché all’Est c’è quasi tutto da fare quanto a rinnovamento democratico. La domanda è questa, signor segretario: il metodo di votazione adottato a Varsavia è assai più libero non soltanto rispetto a tutti gli altri partiti comunisti dell’Est, ma perfino rispetto al Pci. Non pensa che sia venuto il momento di muoversi nello stesso senso?

«Noi abbiamo una procedura complessa, ma quanto mai democratica per eleggere il Comitato centrale, e in essa è previsto anche il voto segreto. Il nostro statuto stabilisce che la votazione segreta si effettui obbligatoriamente quando ne faccia richiesta appena un quinto dei delegati ma non poche volte, per eleggere gli organi dirigenti delle nostre organizzazioni, viene adottato il voto segreto.»

E lei non crede che questo debba diventare norma generale?

«Non lo escludo affatto, e penso che se ne possa discutere. Ma perché lei pone a me questa domanda? Lo sa che gli altri partiti italiani, nei loro congressi, votano, di norma, su liste di corrente bloccate?»

Lo so, ma non mi pare un buon motivo per imitarli. Siate diversi anche in questo, e sarà un’ottima cosa.

«Accetto l’invito. Voglio concludere con una osservazione. Della Polonia si è parlato molto e giustamente in Italia, quando si temeva un intervento sovietico. Ora che il processo di rinnovamento socialista in Polonia è avviato, pur in mezzo a tante difficoltà, e l’intervento non c’è stato, sembra che l’argomento Polonia abbia perso interesse per molta stampa e per tanti politici e politologi. Come mai? Il “caso polacco” non serve più per alimentare la polemica contro di noi? Quanti pregiudizi ci sono ancora, quanti errori, quanti tabù! Un giornalista invitò una volta a turarsi il naso e a votare Dc. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?».

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