martedì 14 febbraio 2023

Elezioni regionali 2023: In Lazio e Lombardia il partito dell'astensione ha davvero vinto

 


da: https://www.wired.it/

Non è solo un modo di dire. L'affluenza alle elezioni regionali rimane intorno al 40%, un dato tra i più bassi di sempre e un crollo verticale rispetto alle ultime consultazioni. Ma qualcuno proverà ad affrontare realmente il problema?

La sirena che suonava da tanti anni, a forza di urlare a vuoto e senza che nessuno intervenisse, si è rotta. Lasciando spazio al silenzio delle urne alle elezioni regionali. Non quello che precede il giorno del voto ma quello, ben più inquietante, che si respirava domenica 12 febbraio e lunedì 13 nelle sezioni del Lazio e della Lombardia. Zero code, scuole semi-deserte e nessuna traccia di quella tensione tipica, perfino all'epoca del cinico disincanto, delle domeniche di elezione. Per la prima volta, tranne alcune eccezioni come una tornata regionale in Emilia-Romagna del 2014, un appuntamento elettorale politico scende sotto il 50% dell’affluenza. Nelle due grandi regioni, che per ragioni amministrative ed economiche sono il cuore pulsante del paese, l’elezione dei presidenti e dei consigli regionali è infatti sostanzialmente passata inosservata.

Il dato è ufficiale: in Lazio l'affluenza è stata del 37,2%, in Lombardia è del 41,67%. Dati bassissimi. Stavolta, la maggioranza silenziosa è rimasta a casa. Anche perché non sapeva: mai come in questo caso l’elezione dei due presidenti di regione è stata ignorata. Pochissima informazione sui media tradizionali, quasi nulla la propaganda elettorale, rarissimi i confronti, in un percorso pre-elettorale schiacciato fra gli spot legge di bilancio su benzina e bollette, la guerra in Ucraina e le festività natalizie. Ciliegina sulla torta, una bella sbornia sanremese ad anestetizzare gli ultimi giorni di campagna.

Al centrodestra conveniva d’altronde così, tentando di cavalcare l’onda lunga del trionfo di settembre. Come d’altronde avverrà, con numeri si prevede perfino superiori per esempio nel Lazio, visto il forte radicamento di Fratelli d’Italia. Il Pd senza neanche un segretario si è barcamenato fra bravi amministratori non proprio forniti di carisma disarmante, riducendo all’osso la presenza del simbolo e pensando bene di rompere le alleanze nel Lazio col Movimento 5 Stelle con cui pure l'ex presidente del Lazio Nicola Zingaretti aveva governato e in Lombardia con Carlo Calenda che però si mette alla prova, superando la quota delle politiche. Il solito pasticcio.

Se il confronto col 4 marzo 2018 è impossibile, perché cinque anni fa il voto amministrativo era stato accorpato alle politiche, il crollo verticale fa comunque impressione: alle regionali aveva votato il 73,11% di chi risiedeva in Lombardia e il 66,55% di coloro che erano registrati nel Lazio. Eppure anche questo modo di porre i confronti conserva un elemento che non spiega nulla: le politiche sono più sentite, coinvolgono i leader nazionali e una campagna a tappeto in tutto il paese, difficile dunque non esserne almeno al corrente. Ma è possibile che un’elezione centrale per la vita dei cittadini, quella dei politici regionali che hanno competenze essenziali sia concorrenti che residuali – su tutte, la sanità e la mobilità locale – debba essere trainata dalle politiche? Perfino dopo il biennio del Covid-19, dove di differenze nella gestione della pandemia e nella qualità dei servizi offerti se ne sono viste eccome.

I dati di Lazio e Lombardia ci dicono però anche qualcos’altro. E cioè che nella visione della rappresentanza politica sta succedendo qualcosa di interessante e pericoloso al contempo: sembra che i cittadini mantengano un minimo di stanca volontà per gli appuntamenti nazionali, dove si manifesta la tendenza politica più generale o la fascinazione per questo o quel leader oltre a ormai residuali sentimentalismi d’area, e per quelli locali come i comuni. Dove invece il coinvolgimento – specialmente nei centri più piccoli - è dettato dalle reti sociali, dalle amicizie, dalle relazioni e dalle convenienze individuali, dalla macchina delle candidature e delle liste.

In mezzo, le regioni a statuto ordinario – organismi intermedi per cui si vota solo dal 1970 - rischiano di ritrovarsi (ingiustamente, ma tant’è) sospese, almeno nella percezione comune. Nell’architettura istituzionale non sono né vicine alle proprie necessità quotidiane come il sindaco, né incaricate di governare il paese come i deputati e i senatori a Montecitorio e Palazzo Madama, nel loro ruolo di espressione e sostegno una maggioranza parlamentare. Non sembra proprio un quadro in cui si chiede più autonomia. Non adesso, almeno, anche se il punto tornerà sul tavolo. Semmai, e anzitutto, più efficienza e più informazione, per ricucire un amore mai davvero travolgente.

Nessun commento:

Posta un commento