giovedì 28 settembre 2023

Milena Gabanelli: Shein, il lato oscuro del re del fast fashion. Lavoratori schiavi, tessuti tossici e inquinamento

 


da: https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/ - di Marta Camilla Foglia e Milena Gabanelli

Fast fashion sta per «moda rapida e a basso costo». Ma quanto basso? Quando una T-shirt viene venduta a 3 euro e un abito a 7 euro vuol dire che c’è un «prezzo» che viene scaricato su qualcun altro.

Partiamo dai costi di produzione: in Italia il costo medio orario nell’industria del tessile e manifatturiero è di 27 euro lordi. In Bulgaria di 5,4 euro, Romania 6,9 in Lituania 9 (Eurostat). In Cina e Vietnam rispettivamente dai 4 ai 3 dollari. Per arrivare ai 2 dollari al giorno in Madagascar e Myanmar (Business-humanrights.org e SalaryExpert.com). Quasi tutti i grandi marchi da anni hanno delocalizzato una parte della produzione in questi Paesi, inclusi quelli del lusso, che si rivolgono a una clientela benestante. E li abbiamo più volte stigmatizzati, perché hanno sacrificato le aziende manifatturiere locali solo per avidità.

Fatta questa doverosa premessa, parliamo della moda usa e getta: l’azienda che si è accaparrata il 50% del mercanto globale del fast fashion si chiama Shein.

L’impennata Shein

Shein nasce nel 2008 su idea dell’imprenditore cinese Chris Xu: inizia con la vendita

di gioielli online, ma in pochi anni diventa una delle piattaforme di moda più cliccate al mondo e nel 2020 è arrivata a fatturare 10 miliardi di dollari. A novembre 2021 l’azienda valeva 30 miliardi di dollari e oggi supera i 60, più di Adidas, H&M e Burberry messi insieme. La sua app, nel maggio 2022, era la più scaricata negli Stati Uniti, con 27 milioni di download (calcoli in tempo reale di App Annie e Sensor Tower). Shein sfrutta un sistema di algoritmi e analisi dati che rileva le tendenze in evoluzione in tempo reale, riuscendo così a produrre nuovi modelli in appena dieci giorni. Un ritmo impareggiabile rispetto a concorrenti come Zara, che richiedono in media cinque settimane. Il sito arriva a caricare fino a 6000 nuovi prodotti al giorno, e contestualmente riceve regolari denunce di plagio sia da designer emergenti che da case di moda consolidate.

I clienti preferiti: la Gen-Z

Una popolarità sostenuta anche dall’ingaggio di influencer e celebrities che orientano la fascia di consumatori più attiva sulla piattaforma, quella dei giovanissimi, la cosiddetta Gen-Z. Proprio così, la generazione più sensibile ai temi legati alla sostenibilità ambientale e ai diritti dei lavoratori è anche la maggiore cliente di questo marchio che di trasparente non ha nulla: dalla struttura della società all’origine dei prodotti.

Ed è utile sapere che prima di arrivare dentro al proprio armadio, un abito o una T-shirt attraversa i processi che ora elenchiamo. Da un rapporto di Bloomberg del 2022 le magliette di cotone vendute da Shein provengono dal lavoro forzato della minoranza Uiguri dello Xinjiang. Questa regione al Nordovest della Cina è uno dei maggiori produttori di cotone al mondo, e la minoranza musulmana è da anni scandalosamente perseguitata e oppressa dal governo cinese.

Lo sfruttamento dei lavoratori

La giornalista anglo–algerina Imam Amrani è riuscita a entrare con telecamera nascosta in due delle 700 fabbriche di Shein, nella provincia cinese dello Guangzhou. I lavoratori sono costretti a turni di lavoro di 17 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese, e condizioni igieniche disumane. Devono produrre 500 capi al giorno e la paga è di 4 centesimi a capo. L’inchiesta, realizzata nel 2022, è stata trasmessa dall’emittente statunitense Channel 4. La risposta di Shein è arrivata a giugno 2023 con l’organizzazione di un viaggio-stampa per sei influencer in una delle sue fabbriche. Viene mostrato un ambiente moderno e pulito, con postazioni distanziate, automazione e aree relax. Le influencer hanno lodato l’azienda nei loro post parlando di operai felici, qualità e lavoro etico. Inondate di critiche alcune hanno fatto marcia indietro. L’influencer Dani DMC ha rapidamente eliminato dal suo profilo il video in cui tesseva le lodi dell’azienda, sostituito con un altro di scuse per non essersi adeguatamente informata.

Il costo ambientale

Per realizzare una singola T-shirt di cotone sono necessari in media 2.700 litri d’acqua, (Rapporto WWF-National Geographic). Questo perché il cotone ha sete e le produzioni intensive devono essere irrigate. Poi ci sono i processi di lavorazione: sgusciamento, tintura, filatura, rifinitura, e ogni fase ha bisogno di tanta acqua. Il processo intensivo richiede poi fertilizzanti chimici e diserbanti che vengono assorbiti dal terreno e inquinano le falde. Mentre i coloranti azoici, largamente usati perché hanno colori brillanti e poco costosi, possono rilasciare ammine aromatiche potenzialmente cancerogene. Per questo il loro uso in Europa è vietato dal 2002. Ma Shein non produce in Europa. Molti suoi prodotti sono sintetici e il tessuto brillante è spesso il risultato di sostanze chimiche tossiche come nonilfenoli e ftalati e, quando finiscono nell’ambiente, danneggiano interi ecosistemi. Un rapporto di Bloomberg ha evidenziato che i prodotti Shein contengono il 95,2% di microplastiche.

L’inquinamento indossato

Un’indagine di CBC Marketplace ha rivelato che alcuni prodotti di Shein contengono piombo, PFAS e ftalati. Una giacca per bambini esaminata conteneva quasi 20 volte la quantità di piombo considerata sicura da Health Canada. Greenpeace ha inoltre denunciato che alcune sostanze chimiche utilizzate nei prodotti superano i limiti di legge UE. E la pelle, a contatto prolungato con queste sostanze, le assorbe.

Montagne di rifiuti e emissioni di CO2

La Ellen MacArthur Foundation, uno dei più grandi enti internazionali che operano nel settore dell’economia circolare e della sostenibilità, ha provato a misurare la quantità di indumenti buttati: ogni secondo un camion carico di tessuti viene smaltito in una discarica o incenerito. Ogni anno, a livello globale, vengono generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato. È il naturale destino dei prodotti fast fashion a prezzi stracciati: bassa qualità, bassa durata, e rapidamente scartati. Più veloce è il ciclo di consumo, più pesante l’impatto ambientale. La moda, in generale, è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio. E l’intera filiera di produzione del fast fashion, che va dalla coltivazione delle materie prime alla lavorazione, produzione, trasporto, vendita al dettaglio e allo smaltimento, è intensiva in termini di energia e risorse.

Non tutto è Shein

Sia chiaro: è Shein solo l’ultima della lista e non la sola responsabile di tutto questo. Anche le produzioni massive di altri marchi fast fashion ben noti come Zara, H&M, Bershka e Pull and Bear generano enormi quantità di rifiuti tessili. Nel corso degli anni sono state denunciate le pessime condizioni di lavoro negli stabilimenti di questi marchi e i salari da fame. Va detto che da qualche anno stanno introducendo linee più sostenibili e si stanno impegnando in iniziative di responsabilità sociale (almeno in apparenza). Resta il fatto che la natura stessa del fast fashion, con il suo bisogno di produrre rapidamente e a basso costo, fa a cazzotti con le sfide etiche ed ecologiche.

La strategia UE per un’industria tessile più sostenibile

L’impennata del fast fashion ha spinto la Commissione Europea, a marzo 2022, a definire strategie per rendere l’industria tessile più sostenibile, spingendo per l’utilizzo di tessuti che durano di più, che possono essere riparati e riutilizzati. Ecco cosa cambierà:

1) design ecologico: i tessuti dovranno rispettare standard più elevati in termini di sostenibilità;

2) informazioni chiare: i consumatori avranno accesso a dettagli sull’origine e la sostenibilità dei prodotti attraverso un «passaporto digitale»;

3) impegno aziendale: si esortano le aziende a ridurre la loro impronta di CO2 e a prendere decisioni rispettose dell’ambiente, e dei diritti dei lavoratori.

E ora punta ad eliminare totalmente le sostanze chimiche nocive dall’industria tessile. Ma se compri online da una piattaforma cinese che non rispetta tutte queste belle direttive? In attesa di regole globali si può solo aumentare il grado di consapevolezza nei consumatori. Non contribuire a questo ciclo di consumo non significa mortificarsi. Si può cambiare spesso abito spendendo poco, basta acquistare sul mercato dell’usato, ormai diffuso in tante città. Così si sostiene anche l’economia circolare nei fatti, non solo a parole. Alla fine è sempre la somma dei singoli comportamenti quotidiani che può affossare, o salvare, il pianeta.

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