domenica 30 ottobre 2022

Il “trionfo” di Meloni non esiste, ma fa comodo ai dirigenti del PD

 


da: https://www.glistatigenerali.com/ - di Andrea Enrici

La mattina del 26 settembre tutti i giornali raccontavano il trionfo di Giorgia Meloni. Eppure, dati alla mano, la destra guidata dalla neoeletta Presidente del consiglio non ha trionfato. Al contrario; la coalizione ha perso 100 mila voti rispetto alle precedenti elezioni del 2018. Il trionfo di Giorgia Meloni, in realtà, è la catastrofe di Enrico Letta e dei dirigenti democratici che, però, preferiscono assecondare la narrazione secondo cui Meloni ha stravinto le elezioni per non dover rispondere dei propri errori.

Nessuno sembra essersene accorto, tutti impegnati a raccontare la storia della prima donna Presidente del Consiglio più a destra dai tempi di Benito Mussolini. I numeri, però, raccontano che i 12 milioni 300 mila voti raccolti dalla destra il 25 settembre sono il secondo peggior risultato raggiunto dalla coalizione sin dalla fatidica discesa in campo di Berlusconi nel 1994. Peggio di oggi fece soltanto l’alleanza PdL-LN-FdI nel 2013, fermandosi sotto i 10 milioni di voti. Nel 2018, la coalizione a trazione salviniana tra FI, FdI, Lega, e “Noi con l’Italia”, col suo al 37,00%, superava i 12 milioni 410 mila voti. Ancora meglio fece il Cavaliere prima di portare l’Italia sull’orlo della bancarotta nel 2011 con Tremonti e Bossi:

- 16 milioni 585 mila voti (42,84%) all’esordio del 1994 (Polo delle Libertà al nord con la Lega Nord, e Polo del Buon Governo con Alleanza Nazionale nel centro-sud)

- 15 milioni 772 mila voti (42,07%) nel 1996 (Polo per le Libertà con Forza Italia, Alleanza Nazionale e CCD-CDU, mentre Bossi corre da solo al nord con la sua Lega)

- 18 milioni 398 mila voti (49,56%) nel 2001 (Casa delle Libertà);

- 18 milioni 977 mila voti (49,74%) nel 2006 (Casa delle Libertà);

- 17 milioni 400 mila voti (46,81%) nel 2008 (Popolo della Libertà, Lega e MpA).

Al 60% dei seggi vinti corrisponde un ben più misero 43% dei voti espressi da poco più del 63% degli aventi diritto: solo un quinto degli italiani ha votato i partiti che da questa settimana ci governano. Eppure ovunque, anche e soprattutto nell’opposizione, si è accettata la narrazione della ‘landslide’ di Giorgia Meloni. Perché se riconoscessero che non c’è stato alcun trionfo, allora, i dirigenti del PD dovrebbero riconoscere di aver abbandonato in partenza una partita che poteva essere vinta. Quei 12 milioni di voti presi dalla destra inchiodano alle loro responsabilità Enrico Letta e chi ne ha assecondato le scelte perché poco meno di 12 milioni sono anche i voti raccolti da centrosinistra e M5S.

Le motivazioni di questa rottura, poi, sono talmente inverosimili (il “tradimento” di Draghi) che non vi crede nemmeno chi crede ancora a Babbo Natale. Si fa piuttosto strada il pensiero che la situazione del Paese sia così disperata che il PD abbia voluto lasciare che Giorgia Meloni andasse a schiantarsi contro le difficoltà del prossimo inverno, per poi tornare nella stanza dei bottoni presentandosi come l’unica forza responsabile in grado di farsi carico del governo del Paese. Da luglio sto provando a cercare una spiegazione più logica e verosimile di questa e non l’ho trovata.

Del resto, non si capisce come nel PD – e nel resto del centrosinistra – nessuno si sia ancora dimesso. Letta, Speranza, Fratoianni e Bonelli sono ancora segretari dei rispettivi partiti e partitini. Malpezzi e Serracchiani erano presidenti dei gruppi PD nella scorsa legislatura e sono state confermate in questa. Tinagli, Provenzano e tutta la segreteria dem è rimasta al suo posto. Ci si prepara alle primarie che incoroneranno il prossimo segretario, un nuovo “primus inter pares” che si guarderà bene dal toccare Franceschini, Guerini, Orfini, Orlando, De Luca, Emiliano, capicorrente e “notabili” con le loro liste di vassalli, valvassini e valvassori.

Perché, invece, nessuno si è ancora dimesso? Perché, nel PD, si sentono solo le critiche di Marcucci e di chi vorrebbe un partito sdraiato sotto i piedi di Renzi? Perché nessuno chiede conto a questo gruppo dirigente della rottura coi cinquestelle? Perché nessuno s’è ancora scusato e dimesso dai propri incarichi? Sarebbe bastato un piccolo sforzo unitario – ostinatamente rigettato dai dirigenti del PD – per scrivere un’altra storia. I dirigenti dem non hanno più alcuna credibilità per guidare (o anche solo fare) l’opposizione: con le loro decisioni si sono resi a priori responsabili morali dell’arretramento che maggioranza e governo imporranno al Paese. Se non si faranno da parte, in fretta, tutti quanti, trascineranno a fondo con sé non solo il PD ma l’idea stessa di centrosinistra messa insieme da trent’anni.

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